2001 Gennaio-Luglio E il samurai con il cuore scoppiò in lacrime
2001 Gennaio-Luglio – E il “samurai” con il cuore scoppiò in lacrime
La morte, la vittoria, la paura, il podio. Il dolore. Lo champagne, il pianto, la bravura e il destino in
millesimi di secondo. Questa è la Formula 1. I piloti come samurai a 18mila giri che, di schianto,
tornano a mostrarsi uomini con l’aorta; il sibilo dei motori che incute quasi lo stesso timore degli
Stuka tedeschi in picchiata: questa è la Formula 1 del Duemila. I cronisti la paragonano al “circo”. E
nei circhi, alle spalle del trapezista volante o del domatore di tigri, lavora in silenzio un mondo segreto
e invisibile, senza faccia e senza gloria, che garantisce lo spettacolo. A Monza, la morte ha scelto
l’antieroe della domenica rosso Ferrari: un volontario del servizio anti-incendi.
Si può fare crash a trecento all’ora senza un graffio. O morire da spettatore.
Mai la Formula 1 è stata così sicura per i piloti. Oggi si muore più sulla Pedavena-Croce D’Aune che
in pista, ma ogni volta che l’uomo cerca il suo limite nessuna precauzione potrà mai tenerlo al riparo
da ogni rischio. Il rischio non è mai calcolato; è rischio e basta, per tutti, attori e comparse.
In una nuvola di polvere e di pezzi d’auto, Rubens Barrichello ha visto volargli addosso un’ombra
grande come un Arrows, dall’alto. Attimi e centimetri: prima di capire era già salvo, ma soltanto lui
sa misurare l’imponderabile, avendolo guardato in faccia.
Quando Coulthard è scampato dal groviglio, incamminandosi verso i box, qualcuno lo ha fischiato.
L’analfabetismo della mente si mostra indegno di piloti quasi sempre migliori dei loro stessi tifosi.
La vittoria di Michael Schumacher sta tutta nel suo lungo pianto finale in mondovisione. Angosciato
più che liberatorio, quasi un cedimento strutturale ma così umano, da non riconoscere più il tedesco
“Uber alles”, il pilota fatto tutto di alettoni e cordoli, più idolatrato che amato, più stimato al volante
che ammirato come personaggio. A testa in giù, singhiozzando, con la mano di Hakkinen a carezzargli
il collo, Scumacher ha svelato i cumuli di tensione che possono crescere dentro un pilota tra prove,
test, attese e pressioni mediatiche miliardarie, a dieci zeri di valore aggiunto.
Io che amo Hakkinen capisco fino in fondo Scumacher: nelle ultime settimane il tedesco ha subito lo
stesso trattamento riservato al finlandese nelle prime della stagione. Come Hakkinen passava ieri per
appagato, distratto, quasi da pensione dopo i due mondiali vinti, così Scumacher era stato trattato alla
fine come un brocco o quasi, incapace di partire, lento di riflessi nei sorpassi, persino appannato nella
messa a punto della Ferrari, a sua volta trattata come una Volkswagen di serie.
Sono sicuro che il pianto di Schumaker confessava senza pudore giorni e giorni di orgoglio ferito:
nelle sue lacrime c’era anche un pizzico di cianuro di sacrosanta rivincita. Nella sua malinconia c’era
questo, soprattutto.
Il fatto è che troppi applicano alla Formula 1 le categorie mentali del calcio. Anche tra i giornalisti,
pochissimi sono i competenti, allo scarno elenco dei quali non oso iscrivermi: siamo tutta gente da
pallone, da bar sport, che resta la cattedrale dell’opinabile, mentre Monza e il resto sono tutt’altra
cosa. Il tifo è bello perché inattendibile.
Questa Formula 1 è invece scienza, alta precisione, orologeria al microscopio, ma dondola tra
macchina e pilota in un equilibrio non misurabile. Può decidere un lembo di gomma, un rifornimento
dal bullone renitente, un soffio di presa d’aria, la pelle dell’asfalto, il colore del cielo, una simulazione
al computer, un calcolo di benzina. Fino al mistero della messa a punto.
Non esistono “la” Ferrari e “la” McLaren multiuso. Ogni circuito esige la “sua” macchina, tagliata su
misura come una seta di Valentino. Per questo non è vero che il pilota conta meno che ai tempi di
Nuvolari; forse conta addirittura di più perché gli tocca guidare ma essere anche il sensitivo, il
pranoterapeuta, l’interprete di creature sempre più complesse, figlie dell’elettronica, degli ingegneri
e dei tunnel del vento.
A volte sento dire di un Gran premio che è stato “noioso” ed è probabile che ieri qualcuno abbia
trovato “noiosi” Schumacher e Hakkinen, senza colpi di scena per quaranta giri. No, non corre noia
tra quei due, ma un filo di seta sempre pronto a spezzarsi: il pilota lo sa, fino a un metro dopo il
traguardo finale, dove lo stress e lo smarrimento finalmente si toccano, e dove le notizie di morte
fanno fatalmente un tutt’uno con una voglia sovrumana di vincere.
Non è che il mondiale 2000 adesso ricominci; semplicemente non è mai finito tra grandi piloti e
grandi macchine e grandi scuderie. Nei prossimi giorni si aprirà agli Uffizi di Firenze, tra i
Michelangelo e i Giorgione, tra i Leonardo e i Piero della Francesca, una mostra intitolata “12 cilindri,
l’opera meccanica tra arte e scultura”. Ci starebbero da Dio anche Hakkinen e Scumacher, il tenero
“Schumi” di Monza, mai sospettato nemmeno dal mistico popolo di Maranello.
La Ferrari, è vero, ne fa di questi miracoli.