2001 Gennaio-Luglio Il pallone dei mercenari orfano di stelle fisse

2001 Gennaio – Luglio – Il pallone dei mercenari, orfano di stelle fisse

A un mesetto dal campionato, la notizia del giorno è questa: sono scomparsi dalla circolazione i
giocatori bandiera, come tanti dinosauri del calcio. Qualcuno osserverà subito che lo si sapeva da un
pezzo e che, a dire il vero, la figura del campione-simbolo era legata alla preistoria del cosiddetto
“vincolo”, quando il giocatore apparteneva al suo Club né più né meno che come un paio di scarpe
bullonate o un pallone. Tolto quel vincolo a vantaggio del mercato, il destino non poteva essere che
mercenario: liberista, si direbbe oggi.

Si, tutto ciò è verissimo, ma adesso la tendenza è diventata sistema senza scampo. Se Madame Zidane
gradisce Madrid più di Torino, suo marito Pallone d’oro divertissement di casa Agnelli e monumento
della curva Juventina, fa una valigia zeppa di miliardi e s’infila la candida maglia del Real.

“Il mio sogno”, mi pare abbia detto a un giornale spagnolo, com’era stata anni afa il suo sogno la
Juve, per l’appunto. Sogni a rotazione, per contratto, implacabili come quelli notturni di Gigi
Marzullo.

I nostri sono ormai miti senza fissa dimora, idoli a tempo determinato, bandiere di giornata. Il giorno
prima sono incedibili anche per il sindaco, il giorno dopo è fatta, con tanto di firma, sorrisi e
telecamere.

Lasciando Firenze dopo sette anni, il portoghese Rui Costa ha pianto mentre seimila fiorentini gli
restituivano gli occhi lucidi al momento dell’addio. Lui, che per la città sembrava l’inalienabile David
di Donatello, ha già dichiarato felice che a Milano c’è “più Qualità”. Vuoi mettere?

Noi tifosi facciamo tenerezza, nulla potendo contro la sistematica disintegrazione di ogni fedeltà, di
ogni persistenza, di ogni figura Panini. A forza di perdere, un’estate dietro l’altra, i nostri assi di
riferimento, ci si sente come scippati: forse anche per questo il tifo si sta facendo più morboso,
caricando sulle spalle dei Club tutto ciò che non possiamo più pretendere da campioni di passaggio,
sempre sul mercato, un giorno “nostri” e 24 ore dopo “contro”, in una giostra senza fine.

Il campione dello s-radicamento è Vieri se, paradossalmente, non ha lasciato Milano. In base al
contratto, resta il centravanti dell’Inter ma, in termini passionali, a me sembra più che altro un
goleador apolide, senza bandiera, o con troppe. Il che fa lo stesso.

La Juve lo voleva, lui voleva la Juve, secondo le regole dell’amore ricambiato. Per sentirsi risarcita
del pubblico ripudio, l’Inter ha alzato il prezzo a Vieri, con qualche fetta di ingaggio in più, è rimasto
all’Inter. Ho letto di 20 miliardi lordi, dunque dieci miliardi netti, che a mio parere è anche il prezzo
dell’estraneità.

Dicono che Massimo Moratti, il petroliere che nell’Inter ha investito finora 800 miliardi, ha il difetto
di essere troppo tifoso della sua squadra. Trovo che con Vieri si sia smentito: avesse pensato da tifoso,
lo avrebbe lasciato andare anche sotto prezzo, ma avrebbe fatto un figurone con chi immagina che,
almeno negli stadi, debba sopravvivere un po’ di feeling tra “clienti” (pubblico) e “piazzisti”
(calciatori).

Se i miliardari non si prendono di questi gusti estetici, che gusto c’è? Nei panni di Moratti avrei messo
un fiocco rosso in testa a Vieri e all’avrei spedito all’avvocato Agnelli: tientelo. Una bandiera
dell’Inter non può avere per amante la Juve.

Ci rido sopra, naturalmente, ma con una guancia sola perché il mio paradosso nasconde una selvaggia
perdita d’identità. Un glorioso pilota di Formula 1, Jean Alesi, ieri tra i primi sei in Germania, ha
detto recentemente: “In F1 avremmo bisogno di un po’ di cuore”. Vale anche per il calcio; anzi, il
doppio.

Totti, core dè Roma, ha trattato sulle lire per dei mesi. Nedved che sembrava geneticamente laziale,
ha cambiato maglia come le ballerine del Moulin Rouge il perizoma. Di colpo, Inzaghi sembra
cresciuto nel vivaio di Arcore; a sentirlo, è più rossonero di Silvio Berlusconi.

Sono tutti miti cangianti, più globalizzati del G8, fatti su misura per un tifo usa e getta, più caduco di
un profilattico. Anche la mia beneamata Udinese, nata con il Friuli (accento sulla u…) nell’aorta, è
diventata multinazionale, multietnica più che mai, mistilingue. Allo stadio, Udine pare New York, la
piccola grande mela del nordest, dove gli interpreti e i traduttori sono importanti quanto i
massaggiatori e i preparatori atletici.

Vi ho forse dato l’impressione di fare una predica a una serie A che spende 1200 miliardi all’anno
per gli stipendi dei calciatori-ballerini senza salvare un briciolo di anima? No. Il mio era soltanto il
patetico lamento di un tifoso come tanti: orfano di stelle fisse.

Guarderemo i gol, e basta.