2001 Gennaio-Luglio L’anfibio Domenico, un Saltafossi campione di lealtà

2001 Gennaio – Luglio – L’anfibio Domenico, un Saltafossi campione di lealtà

Una volta ho letto che non c’è stile più semplice della rana; infatti, ho pensato, riesco a galleggiare
persino io, che do segni di annegamento anche sotto la doccia. Ma ieri, dopo aver visto Domenico
Fioravanti, ho capito che quello è un tipo molto particolare di rana: la rana agile o, meglio saltafossi,
che ha i posteriori talmente lunghi da permetterle salti lunghi anche due metri.

Il nostro Saltafossi d’oro spingeva in avanti meglio di un motoscafo di Valona, dimostrando che il
segreto sta nelle gambe, come cominciarono a insegnare i tedeschi negli anni ’30. Ma non dev’essere
soltanto questione di stile, di talento e di forma se i nostri nuotatori sbalordiscono tutti, anche se stessi.

Ci dev’essere dell’altro, e riguarda il doping che non è un flagello della globalizzazione ma risale ai
greci e ci ha sempre accompagnati. La Nazionale tedesca che vinse il mondiale di calcio del 1954 a
Berna era più chimica del petrolchimico di Marghera. Coppi fece il record dell’ora al Vigorelli di
Milano con una spinta di sei/sette pillole di simpamina. Se si rifacesse la storia e il medagliere delle
Olimpiadi più recenti in base agli anabolizzanti, andrebbero al macero almeno la metà dei risultati
dell’Est comunista.

Quando smettevano di fare sport, i sollevatori di peso si ritrovavano prestissimo senza ginocchia,
massacrate da masse muscolari del tutto abnormi. La famigerata “scuola di Lipsia”, nella Germania
orientale, ha sulla coscienza donne sterilizzate nello sviluppo, cicli mestruali mandati a ramengo, seni
atrofizzati, carichi di lavoro buoni per animali da soma non per “atleti” del barona De Coubertin.

Uno schifo, altro che Citius, Altius, Fortius. In fondo, il più simpatico doping che io conosca lo aveva
inventato una ventina d’anni fa proprio un preparatore australiano di nuoto, come ho letto su un bel
libro della Marsilio scritto da Remo Bassetti. L’allenatore ipnotizzava i suoi atleti fino a convincerli
di essere inseguiti in vasca da uno squalo! Parlo, beninteso, di vera ipnosi.

Secondo me, a Sydney sta capitando qualcosina di interessante in proposito, nel senso che il doping
mette finalmente paura. Siccome è una brutta bestia, o lo combatti sul serio e lo stoppi oppure si
mangerà piano piano l’Olimpiade nella testa e nel cuore. Va dove ti porta l’Epo, tra ipocrisie e
pantanismi.

I controlli sono oggi più seri. Alcune federazioni, Italia compresa, forse fingono meno. I Frankenstein
di Lipsia hanno perso il posto dopo la caduta del Muro. Un po’ di atleti vogliono vincere, far soldi,
durare, diventare top model o ballerini di Kataklò mica ridursi a mostri, cavie, residui tossici della
pazzia altrui e di medicina che avvelena invece di curare o di potenziare a testa alta, come denuncia
da anni Daniele Scarpa, oro in canoa.

Forse m’illudo, però fiuto qualcosa nell’aria di questa spettacolosa Sydney, la New York del
Nuovissimo Mondo. Non a caso, Fioravanti Saltafossi non ha fatto nemmeno in tempo di asciugarsi
la pelle anfibia che si liberava di un peso: “Ho dimostrato – sono state le sue prime parole – che si
può vincere senza ricorrere a sporchi trucchi”.

Se ho ben capito, questa medaglia vale il doppio per noi. Perché è la prima d’oro nel nuoto e perché
restaura un sostantivo sputtanatissimo, quasi obsoleto, buono per le cerimonie quanto bandito dal
sottobanco: “lealtà”, lealtà sportiva. Saltafossi non aveva la stricnina nelle zampe, voleva dire. Ha
vinto da solo, senza stregoni, come una rana ecologica.

In generale, la gente ha un’idea sballata del doping, che si rifà alle sue ricorrenti tragedie. Una su
tutte, la morte di Thomas Simpson al Tour de France del 1967. Faceva un caldo bestiale sul Mont

Ventoux, quel 13 luglio, e vi morì come uno straccio d’uomo, sul ciglio della strada, per collasso di
droga e di caldo. Dall’ospedale di Avignone, le sue viscere (“ses tripes” disse un medico a Gian Paolo
Ormezzano) furono portate in una valigetta di zinco a Marsilia dove gli esami tossicologici
sentenziarono: doping.

Ecco, noi pensiamo sempre a questo doping da campioni bucati, a questo sport dalle bave bianche
alla bocca, commettendo l’errore di limitarci alla sua mortale patologia, nel ciclismo come in qualsiasi
altro sport. Invece, l’idea da ficcare bene in testa è un’altra: non che di doping si muore né che il
doping si paga prima o poi in salute. Sono adulti, si arrangino. Pensiamo ai ragazzi. Il fatto è che il
doping manda sul podio truffatori, fa sventolare bandiere ladre, consegna agli albi d’oro risultati
truccati. Il doping sta allo sport come la sleale concorrenza sta all’economia, finendo per il ridurre
anche il meglio degli atleti alla loro ombra sospettosa.

Posso dirlo? Domenico Saltafossi Fioravanti mi è piaciuto persino più del suo oro, per questa gran
voglia di pulizia. L’immenso Emil Zatopek, oro dei cinquemila e maratona, aveva un suo trucco: si
allenava in Moravia correndo con pesantissimi scarponi militari, sicchè in gara gli sembrava poi di
volare.

Anche lui era un nobile Saltafossi.