2001 Gennaio-Luglio L’imprenditore Fassa ha vinto il Giro dell’onestà
2001 Gennaio – Luglio – L’imprenditore Fassa ha vinto il Giro dell’onestà
Si, d’accordissimo, c’è la Roma, c’è la Juve, c’è Ralf Schumacher, un sacco di roba forte. C’è Gilberto
Simoni, fresco come una rosa, che in certi strappi mi ha ricordato l’agilità di Charly Gaul,
meraviglioso scalatore lussemburghese dei miei anni ’50. Ma qui voglio partire da Paolo Fassa,
imprenditore di Spresiano. In due hanno vinto il Giro d’Italia più malfamato e meno epico della storia:
Simoni, appunto, e Paolo Fassa. Tecnicamente, ha stravinto il primo; eticamente, non ha avuto
avversari il secondo.
Da qui bisognerebbe ricominciare a ragionare, dalla “Fassa Bortolo”, un marchio industriale che si è
messo due anni fa nel ciclismo con un investimento non da poco. Per chi non lo sapesse, oggi, una
squadra professionistica costa almeno undici miliardi.
Non si capisce niente del ciclismo, né del doping, se non si segue la pista anche delle storie personali
e imprenditoriali. L’Azienda di Paolo Fassa s’avvia ai 300 miliardi di fatturato ed è all’avanguardia
soprattutto con la produzione di intonaci pre-miscelati, ultimo capitolo di un’antica tradizione che
viene dalla lavorazione della calce. Quel “Bortolo” che accompagna il marchio, è il nome del padre
di Paolo Fassa. “Se ho fatto strada senza imbrogliare – mi ha raccontato una volta – è perché ho preso
sempre come oro colato gli insegnamenti di mio padre. Ai miei cinque figli lo ricordo sempre”.
Fin da ragazzo, ha sempre amato il ciclismo. Ma, poi, aprendo via via sei stabilimenti, Paolo Fassa
ha scoperto che gran parte dei suoi clienti, quasi tutti imprenditori edili con passato di muratori, vanno
tutti matti per il ciclismo. Trovo molto bella questa simbologia parallela tra la fatica della bicicletta e
quella del costruire, come portare insieme mattoni, calce e maglia rosa.
Quando, un paio d’anni fa, ha deciso per il ciclismo, per prima cosa ha preso carta e penna e fatto
firmare a tutti, corridori, tecnici, medici, un contratto che era anche su carta etica. Su proposta del suo
direttore sportivo, Giancarlo Ferretti, era un modo drastico per dire che chi truffa perde il posto, non
ci sono santi che tengano: e il doping è la truffa delle truffe. Altro che “immagine”,” marketing”, o
“messaggio”; schifezza e basta, da sputtanare tutto, papà Bortolo, una tradizione, i figli, la
reputazione, perfino gli intonaci fabbricati nelle torri di Spresiano.
Dario Frigo, quotato due miliardi, era il numero uno della “Fassa Bortolo” e il numero due in
classifica quando lo hanno rispedito a casa e licenziato in tronco, per doping. “Dovevamo farlo – mi
dice l’industriale – non avevo alternative, per coerenza”. Così si fa: la squadra che fa il proprio dovere
(dovevamo) prima dei magistrati e prima dei giudici sportivi. Così si fa, alla luce del sole dopo la
clandestinità delle fiale passate a Frigo da uno dei tanti mascalzoni al seguito del Giro, gente appresso
come i parassiti, gente in appoggio con vagonate di salmerie chimiche.
Dario Frigo ha promesso che parlerà. Al suo direttore sportivo ha confidato: “Non farò come Pantani”.
Forse per dire che non si lascerà prendere da reticenze, orgogli suicidi, sindromi di persecuzione. Se
così farà, fino in fondo, la Fassa Bortolo avrà avuto alla fine la stessa provvidenziale funzione della
magistratura: questa per inchiodare i furbacchioni, quella per rompere dall’interno del Giro il muro
dell’omertà, l’immensa cappa di ipocrisia che buca l’epos e le ruote del nostro amatissimo ciclismo
e, anche, quel patetico giustificazionismo di tanti addetti ai lavori e, ahinoi, di parte dell’informazione
specializzata. Roba da piangere le varie litanie di turno. “ Sono una minoranza”, “non fate di ogni
erba un fascio”, “anche nel calcio”, perquisizioni barbare”(!), fino al cipollinismo mentale: “ I
carabinieri potevano andare nelle discoteche”. Peggiore addirittura del doping è la bugia sistematica
che fa dire al baraccone: “Lo sapevano tutti”, ma , contemporaneamente: “Fuori i nomi”. Ma si può?
Diceva il personaggio di un racconto di Anton Cechov: “E’ il nostro secolo nervoso, non ci si può far
nulla”. Ha torto Cechov; si può fare molto, con le manette in alto e l’educazione in basso, fino a che
la classifica del merito e della medicina pulita vincerà sulla classifica del trucco e dell’Epo. Vogliamo
un ciclismo a punti, non a fiale: le medie, più che record, devono essere sincere. Ma se i soldi sono
tutto, è finita.