2001 Gennai- Luglio Via il calcio da Olimpia, l’ultima vittoria con Meazza
2001 Gennaio – Luglio – Via il calcio da Olimpia, l’ultima vittoria con Meazza
Non bisogna mandare il calcio alle Olimpiadi. Anzi, io toglierei di mezzo tutti gli sport che non si
possono misurare con la tecnologia. Mi spiego. Nel nuoto vince chi ha vinto, cioè il migliore del
momento. Nella scherma la stoccata è o mia o tua, e a deciderlo è un marchingegno elettronico, come
in vasca. Sul fotofinish dei 100 oppure del canottaggio non esiste margine all’errore. Se due ciclisti
sono divisi da una bava di gomma, si capisce con chiarezza, al millimetro chi ha l’oro o no.
Diventiamo sempre più esigenti perché la tecnologia dà sempre più certezza. Come? Sbarazzandosi
dell’uomo che, al confronto, è orbo, lento, arbitrario: non per nulla, l’aggettivo arbitrario, per dire
ingiustificato, deriva da arbitro.
L’uomo è una palla al piede, non ha occhio della lince, l’udito di un cane, i riflessi di un gatto. E’ un
giudice lento, arcaico, inaffidabile, la sola palla al piede di uno sport che l’immagine (televisiva) e il
progresso (strumentale) rendono fantastico come non mai. New sport, ormai.
Guardate i cronisti. Non raccontano più lo sport; sono i cronisti del replay. Prima della moviola
sparano palle di cannone, roba da vergognarsi, e ricuperano come niente fosse soltanto dopo che lo
strumento ha finalmente visto al posto loro. La sola verità è quella della tecnica.
Da questo punto di vista, il calcio all’Olimpiade diventa inguardabile. Tu non puoi passare da
Indianapolis, dove contano i millesimi, all’atletica di Sydney, dove un refolo di vento decide il salto
in alto, e piombare poi con la Nazionale di calcio in una partita decisa da un fatto che tutti hanno visto
ad occhio nudo, e rivisti cento volte al rallentatore, ma che non è stato visto dalle uniche quattro
persone che erano lì soltanto per far questo, da professionisti, cioè l’arbitro, i due guardialinee e il
quarto uomo! Neanderthal è tornato tra noi.
L’Italia avrebbe dovuto giocare in undici contro dieci spagnoli per 85 minuti su 90, dopo che Josè
Mari aveva fatto letteralmente vomitare il nostro Cirillo con una gomitata tra naso e carotide. Non è
stato espulso, nemmeno ammonito, nel nome dell’anarchia: la tv mostra, l’uomo oscura. Josè Mari
gioca nel Milan e ne è palesemente indegno. Troppo imbecille, uno di quei furbetti che, prima la
fanno, poi fischiettano ignari e, alla fine, provocano da bulli visto che l’hanno passata liscia. Mi
piacerebbe da morire che Silvio Berlusconi lo impacchettasse con solo biglietto di andata per Madrid.
Cavaliere, creda a me, non perde niente e farebbe un figurone prima che Gattuso lo meni di persona
la prima volta che se lo ritroverà a Milanello.
Quelli come Josè Mari non li ho mai sopportati. Peggio ancora all’Olimpiade, dove il senso estetico
del gesto semmai li affina.
Però m’interessa soprattutto dire che sogno i robot, gli uomini bionici, 50 telecamere a bordocampo
e un sistema computerizzato che ci liberi per sempre della categoria degli arbitri. Oramai
insopportabili, non perché “disonesti” ma perché corpi estranei, l’anello debole, cioè l’arbitro che
diventa arbitro. Se l’anno scorso, tanto per dire, il campionato fosse stato in mano a neutralissimi
robot, lo scudetto sarebbe andato alla Juve, nonostante un Del Piero da calciobalilla, non alla Lazio.
Teniamo il calcio tra di noi, dove almeno siamo tutti alla pari, mediocramente alla pari, ed evitiamo
invece di confrontarlo con sport più onesti perché non arbitrati, ma regolati da una fotocellula né
manovrata né incapace né umorale. Meglio stare alla larga dalle Olimpiadi. Oltretutto è inutile
insistere. Non vinciamo dal 1936, dai tempi di Meazza e Frossi, quando a trovare gli azzurri in ritiro
ci andava il principe Umberto. Se persino un tipo a serramanico come Tardelli se ne resta passivo in
panchina ad assistere al fox trot della Nazionale, vuol dire che è meglio lasciare perdere. Oppure,
mandiamo ragazzini, ma proprio ragazzini di primissimo pelo, che almeno li svezziamo, senza
ambizioni, senza ritardare apposta la serie A.
Detto questo, aggiungo anche: chissenefrega! Quando ti appare sullo schermo Marion Jones o
Maurice Greene, dimmi tu se uno si può concentrare su Ventola. Ma andiamo, su. Lui, Greene, ha
una falcata da due metri e 40 centimetri: è una palla di vento. Lei, due lievi respiri per fare 100 metri,
non è Wilma Rudolph, la gazzella nera di Roma 1960, che aveva battuto da bambina anche la
poliomelite. No, la Jones, tiene le mani a coltello come le ha insegnato l’inarrivabile Carl Lewis, ma
mette già la testa, raccoglie le spalle e un po’ si piega in avanti come se dovesse correre in fretta dalla
mamma. Trovo nel suo gesto muscolare una souplesse quasi infantile, gioiosa. Una palla di vita. Ho
sentito dire: “Negli ultimi metri, Greene ha frenato. E’ pericoloso frenare così”. Sembrava parlassero
dei freni della Ferrari non delle gambe di un uomo, ma è giusto: sotto i 10 secondi, l’uomo è una
Ferrari. Jones e Greene avrebbero entusiasmato Marinetti e D’Annunzio.
L’Italia è piena d’oro, meglio di Bankitalia, e piena di Vezzali, Pezzo, Galtarossa, Sensini; una sfilza
di argenti e bronzi similoro. Personalmente, sono molto grato al comasco Lorenzo Vismara, quarto
nei 50 stile libero: quando il telecronista gli ha chiesto se era il momento dell’amarezza, lui ha
risposto: “Adesso girano le balle”. Umanissime, girano anche sotto la fiaccola.