2001 Luglio Cari Giochi già mi mancate

2001 Luglio – Cari Giochi già mi mancate

Ho sentito Luca Devoti, argento nella vela, sussurrare : “E’davvero sottile il filo che separa il successo
dalla sconfitta”. Sceglierei questa confessione per mandare a memoria Sydney, diecimila atleti per
trecento titoli in palio, una elite d’oro e un esercito di sconfitti. Per il poeta tedesco Schiller siamo
tutti nati in Arcadia, con una gran pretesa di felicità, ma ben presto i conto sono ben altri, sul podio
come nella vita quotidiana. Oro e lacrime.

Ne sa qualcosa Manuela Levorato. Ci fosse ancora la cara vecchia “Domenica del Corriere” lei
sarebbe finita dritta come un fuso nella rubrica “Chi l’ha visto?”. Tu pensa che, nel ritiro di Brisbane,
il solo disturbo che lamentava era il canto dei numerosissimi uccelli alle 5 del mattino. Credo che ci
siano poche cose al mondo insopportabili come un muscolo che, dopo quattro anni di religiosa
preparazione, ti salta mentre lo riscaldi per la gara della vita.

Conosco bene la Levorato. E’ un tipo che trasmette; non soltanto sa essere veloce. Una volta, in una
sala parrocchiale, l’ho sentita raccontare l’atletica come se avesse un gatorade in vena e un valore in
testa. La sua falcata bionda e sorridente avrebbe fatto la sua bella figura a Sydney: le consiglio un
versetto biblico,” tutto è vanità”; e si ricomincia, che vuoi farci?

Vittorio Zucconi, bravo come pochi, ha scritto su Repubblica: “L’Olimpiade è un chiodo piantato
ogni quattro anni nel muro della memoria. Fa male”. Vero, però di questo chiodo in mondovisione io
già soffro di nostalgia.

Mi domando che cosa la Rai sbatterà dentro il video al posto di Sydney, non ci voglio nemmeno
pensare. L’Olimpiade, comunque vada, funziona sempre come un’impresa di nettezza urbana
mediatica: per venti giorni toglie dal palinsesto una montagna di spazzatura, di teatrini, di schifezze,
di tormentoni, di grandi fratelli scemi. Non è poco.

Più la critichiamo, più ci manca, anche perché l’Olimpiade ci rende un po’ tutti apolidi. Si, ciascun
Paese conta con ossessione le sue medaglie; gli australiani vedono tutti canguro; gli inni e le bandiere
marcano le differenze; l’informazione tira l’acqua al proprio mulino nazionale. Tutto vero, se non che
il gesto vince tutto, se ne frega delle frontiere e dei nazionalismi, è per definizione ecumenico,
multietnico, globale. Apolide appunto.

La Bellezza, questa sì greca e maiuscola, ridicolizza il confine. Ieri mattina, nel guardare le ginnaste
con il nastro come un arabesco a cento all’ora, sfido chiunque a ragionare in termini di passaporto.
Abbiamo più che mai bisogno di “tempi spaziosi”, direbbe Jame s Joyce, che non per nulla aveva nel
cuore Dublino e Trieste. Dicono che i soli fuochi d’artificio della ultima cerimonia siano costati quasi
cinque miliardi, altro che Piedigrotta. Ho pensato ai giochi invernali di Cortina D’Ampezzo nel 1956,
che fecero spendere tre miliardi e duecento milioni in tutto. Il mondo ci disse “bravi”, anche perché
credeva pochissimo negli italiani.

Non sono più possibili confronti, è un altro mondo, anzi un’altra era geologica. Gli italiani che hanno
vinto l’oro a Sydney riceveranno 75 milioni a testa oltre che un fondo pensionistico personale da 150
milioni riscattabile a 45 anni di età. Nel 1960 a Roma Livio Berruti, oro mitico dei duecento, rinunciò
a indossare certe scarpette tedesche in finale rimettendoci trecentomila lire di allora .

Olimpia e il denaro ieri era un binomio ipocrita; oggi finalmente sincero. Non c’è dollaro che possa
inquinare il gesto atletico; soltanto il doping se lo mangia dentro consegnando ori come gusci vuoti,
spolpati di senso.

Di questa Olimpiade, resta negli occhi l’Australia. Dove gli inglesi mandarono 160mila galeotti e
dove noi italiani spedivamo bastimenti di emigranti, di speranze e di dolore, c’è un paese stupendo,
fresco, ben tenuto, che ha costruito i suoi megaimpianti senza ferire l’habitat. Australiani brava gente.

Si sono congedati, non con una cerimonia di chiusura, piuttosto con un caravanserraglio a metà strada
tra il Barocco, l’Odissea nello spazio e un ipermercato. Ma il loro bello sta anche nell’iperbole, nel
gioco, nello spazio senza limiti: potendo, avrebbero trasportato allo stadio anche la roccia rossa dei
monti Olgas, un panettone della natura. Loro sono fatti così.

Di Sydney resta negli occhi la Cina, signori miei, La Cina ha appena cominciato, ed è già una
macchina da guerra di exploit e di medaglie. Con 1300 milioni di anime e due milioni di soldati,
questo paese grande 32 volte l’Italia prenderà prima o poi gli Stati Uniti. Ineluttabilmente ma con
grazia millenaria, come nei tuffi sincronizzati. Che meraviglia.

Dico la mia. Olimpia è femminile, Olimpiadi anche, più che mai. Sydney è stata soprattutto donna,
più femmina che maschio. Russe, kazake, yankee, gialle, nere, aborigene, scure come la notte,
luminose come le betulle; ebbre, turbate, cattive, tenere, come il sorriso di Marion, l’intensità della
Freeman, il pianto della Belluti. L’universo femminile è anche il più letterario, dove il record si fa
naturalmente storia e racconto.

E’ tante cose, persino troppe, un’Olimpiade. Tutti i diecimila atleti si sono allenati con gli attrezzi
della Technogym di Gambettola, provincia di Forlì. E 24 dei 25 scafi in lizza nella categoria Finn
sono stati costruiti dal veronese Devoti, l’imprenditore d’argento sbucato fuori dal Garda, Nordest.

Non basta internet a immagazzinare; no basterà l’astinenza televisiva a farcela dimenticare. A
proposito, è partito il campionato di calcio di serie A: san Biscardi, ora pro nobis.