2002 gennaio 2 Il Titanic delle riforme
2002 gennaio 2 – Il Titanic delle riforme
Se un ventenne chiedesse a bruciapelo da quanto tempo si discute in Italia di riforme urgenti, una sola
sarebbe la risposta giusta da dargli: “Esattamente da quando sei nato tu”, vent’anni fa appunto, dal
passato remoto di Spadolini, Craxi, De Mita. Sulla carta, nessuno al mondo è più riformista degli
italiani; nessuno ha riflettuto più di noi sulle Istituzioni; nessuno ha sfornato tante proposte come le
nostre “Commissioni bicamerali per le riforme”, autentici Titanic di interi ceti politici. Non ricordo chi
abbia detto che per le riforme cercavamo padri fondatori e abbiamo trovato solo padri sfondatori.
Proprio così, ma adesso ho l’impressione che stia capitando qualcosa di nuovo e che il 2003 non sarà
un anno come tanti altri dell’impotente ventennale. Dal 14 al 22 gennaio, tanto per precisare, parte alle
Camere la maratona delle riforme costituzionali. Il merito è di due mine, che sinistra e destra chiamano
per comodità riforme. In realtà sono ancora allo stato di mine che il Parlamento sa di aver posato e
dove, anche se non sa bene come utilizzarle: se l’una contro l’altra o disinnescando gli effetti
indesiderati di entrambe. La prima mina è la riformetta cosiddetta federale dell’ultimo centrosinistra; la
seconda è la riformetta della devoluzione di centrodestra. La prima deve essere attuata e armonizzata;
la seconda è attesa da almeno un altro anno di tragitto parlamentare. Adesso come adesso, è
praticamente come se non esistessero. Sono scollegate tra loro, l’una sorda e muta rispetto all’altra,
ciascuna pensata secondo la famigerata tecnica dell’“ognuno si faccia la propria riformetta”. Non
bastasse, funzionerebbero in ogni caso come cani sciolti senza collare istituzionale, senza una delle due
Camere tutta per loro. Tolgono poteri al condominio romano e li intestano agli enti locali ma senza
mostrare ai cittadini quale sarà la faccia del nuovo Stato e, soprattutto, senza spiegare per filo e per
segno perché la sospirata riforma sarà un affare collettivo e non un lusso da professori. Poi ci si
stupisce se la gente è scettica e scoglionata o se dichiara di non capirci un tubo. Mancando uno scatto di
concretezza da parte del ceto politico, l’opinione pubblica bada giustamente ad altro. Le due mine
hanno però il pregio di ingombrare il terreno. Non si può più fingere che non esistano; ci sono e sono
forse riuscite a scatenare una reazione a catena. Un giornalista come Alfredo Pieroni, che conosce
benissimo l’Inghilterra, ha segnalato una illuminante differenza di linguaggio tra gli inglesi e noi
italiani. Un politico inglese non direbbe mai “sono stato ministro” oppure “ho fatto il ministro nel
governo tal dei tali”; dice invece “ho servito nel governo X o Y”. L’uomo di Stato è di servizio; servire
dovrebbe essere il suo unico mestiere, “ho servito”. È banalmente tutto ciò che ci vuole in questo
preciso momento in Italia per passare dal riformismo a scampoli alle riforme con capo e coda, adottate
esclusivamente per rendere più pratica e meno costosa la vita del cittadino in carne e ossa. È solo lui –
il cittadino – la vera Istituzione privata di riferimento per ogni sana istituzione pubblica. O no?
Apprezzo fino in fondo lo spirito del presidente Ciampi quando abbina il “federalismo solidale”
all’”unità nazionale” ma, a mio avviso, ogni fraintendimento in proposito è oramai impossibile. Da
Hamilton a Cattaneo, il federalismo o si realizza nell’unità oppure sarebbe un’altra cosa ma non
certamente federalismo. L’esempio americano è spettacoloso. Enormi poteri agli Stati federati nel
massimo dell’unione federale, nazionale, presidenziale e patriottica. La bandiera degli Stati Uniti è una
storica didascalia al federalismo/unità. Una stella per ciascun Stato con i colori della stessa identità
nazionale. Il rispetto statuale per la bandiera “United States” è tale che ogni suo esemplare esposto
pubblicamente, in America o all’estero, in un consolato o in ufficio pubblico, deve essere distrutto non
appena ritirato. Essendo un simbolo deve cessare anche materialmente come tale, né commerciale né
riciclabile né disponibile. La via italiana al federalismo non mette minimamente in pericolo né lo
spirito né la lettera dell’unità nazionale. Semmai il contrario: si cambia lo Stato per ricuperarne il
“senso”, oggi sotto i tacchi. I rischi giacciono tutti in archivio. Dal separatismo siciliano degli anni ’50
al secessionismo padano degli anni ’90, si trattò in ogni caso di una storia nata morta. Il tema del
giorno non è l’unità d’Italia, ma la qualità dell’unità nazionale. Cioè con quanto federalismo dal basso
si intende migliorare il Paese, con un governo quanto rafforzato al centro, con quale dose di sangue
nuovo immesso in Parlamento e nella Corte costituzionale. Insomma un impianto da Paese europeo a
cinque stelle, non questa baracca riformista. Un po’ deve essere come con l’economia. Dice
l’industriale Mario Carraro che quest’anno ci sarà o vera ripresa o recessione vera e propria; un terzo
sbocco sarebbe impossibile perché, a suo dire, non si è mai vista un’economia che stagni così a lungo.
Immagino che valga anche per le riforme. O si va avanti o si rotola all’indietro.
5 gennaio 2002