2002 gennaio 5 Federalismo

2002 gennaio 5 – Federalismo

Se un ventenne chiedesse a bruciapelo da quanto tempo si discute in Italia di riforme urgenti , una
sola sarebbe la risposta giusta da dargli: “ Esattamente da quando sei nato tu”, vent’anni fa
appunto, dal passato remoto di Spadolini, Craxi, De Mita. Sulla carta, nessuno al mondo è più
riformista degli italiani; nessuno ha riflettuto più di noi sulle Istituzioni; nessuno ha sfornato tante
proposte come le nostre “Commissioni bicamerali per le riforme”, autentici Titanic di interi ceti
politici.
Non ricordo chi abbia detto che per le riforme cercavamo padri fondatori e abbiamo trovato solo
padri sfondatori. Proprio così, ma adesso ho l’impressione che stia capitando qualcosa di nuovo e
che il 2003 non sarà un anno come tanti altri dell’impotente ventennale. Dal 14 al 22 gennaio, tanto
per precisare, parte alle Camere la maratona delle riforme costituzionali.
Il merito è di due mine, che sinistra e destra chiamano per comodità riforme. In realtà sono ancora
allo stato di mine che il Parlamento sa di aver posato e dove, anche se non sa bene come utilizzarle:
se l’una contro l’altra o disinnescando gli effetti indesiderati di entrambe.
La prima mina è la riformetta cosiddetta federale dell’ultimo centrosinistra; la seconda è la
riformetta della devoluzione di centrodestra. La prima deve essere attuata e armonizzata; la
seconda è attesa da almeno un altro anno di tragitto parlamentare.
Adesso come adesso, è praticamente come non se esistessero. Sono scollegate tra loro, l’una sorda e
muta rispetto all’altra, ciascuna pensata secondo la famigerata tecnica dell’”ognuno si faccia la
propria riformetta.”
Non bastasse, funzionerebbero in ogni caso come cani sciolti senza collare istituzionale, senza una
delle due Camere tutta per loro. Tolgono poteri al condominio romano e li intestano agli enti locali
ma senza mostrare ai cittadini quale sarà la faccia del nuovo Stato e, soprattutto, senza spiegare per
filo e per segno perché la sospirata riforma sarà un affare collettivo e non un lusso da professori.
Poi ci si stupisce se la gente è scettica e scoglionata o se dichiara di non capirci un tubo. Mancando
uno scatto di concretezza da parte del ceto politico, l’opinione pubblica bada giustamente ad altro.
Le due mine hanno però il pregio di ingombrare il terreno. Non si può più fingere che non esistano;
ci sono e sono forse riuscite a scatenare una reazione a catena.
Un giornalista come Alfredo Pieroni, che conosce benissimo l’Inghilterra, ha segnalato una
illuminante differenza di linguaggio tra gli inglesi e noi italiani. Un politico inglese non direbbe
mai “sono stato ministro” oppure “ho fatto il ministro nel governo tal dei tali”; dice invece “ho
servito nel governo X o Y”.
L’uomo di Stato è di servizio; servire dovrebbe essere il suo unico mestiere, “ho servito”. E’
banalmente tutto ciò che ci vuole in questo preciso momento in Italia per passare dal riformismo a
scampoli alle riforme con capo e coda, adottate esclusivamente per rendere più pratica e meno
costosa la vita del cittadino in carne e ossa.
E’ solo lui – il cittadino – la vera Istituzione privata di riferimento per ogni sana istituzione
pubblica. O no?
Apprezzo fino in fondo lo spirito del presidente Ciampi quando abbina il “federalismo solidale”
all’”unità nazionale” ma, a mio avviso, ogni fraintendimento in proposito è oramai impossibile. Da
Hamilton a Cattaneo, il federalismo o si realizza nell’unità oppure sarebbe un’altra cosa ma non
certamente federalismo.
L’esempio americano è spettacoloso. Enormi poteri agli Stati federati nel massimo dell’unione
federale, nazionale, presidenziale e patriottica.
La bandiera degli Stati Uniti è una storica didascalia al federalismo/unità. Una stella per ciascun
Stato con i colori della stessa identità nazionale.
Il rispetto statuale per la bandiera “United States” è tale che ogni suo esemplare esposto
pubblicamente, in America o all’estero, in un consolato o in ufficio pubblico, deve essere distrutto
non appena ritirato. Essendo un simbolo deve cessare anche materialmente come tale, né
commerciale né riciclabile né disponibile.

La via italiana al federalismo non mette minimamente in pericolo né lo spirito né la lettera
dell’unità nazionale. Semmai il contrario: si cambia lo Stato per ricuperarne il “senso”, oggi sotto i
tacchi.
I rischi giacciono tutti in archivio. Dal separatismo siciliano degli anni ’50 al secessionismo padano
degli anni ’90, si trattò in ogni caso di una storia nata morta.
Il tema del giorno non è l’unità d’Italia, ma la qualità dell’unità nazionale. Cioè con quanto
federalismo dal basso si intende migliorare il Paese, con un governo quanto rafforzato al centro, con
quale dose di sangue nuovo immesso in Parlamento e nella Corte costituzionale. Insomma un
impianto da Paese europeo a cinque stelle, non questa baracca riformista.
Un po’ deve essere come con l’ economia. Dice l’industriale Mario Carraro che quest’anno ci sarà o
vera ripresa o recessione vera e propria; un terzo sbocco sarebbe impossibile perché, a suo dire, non
si è mai vista un’economia che stagni così a lungo.
Immagino che valga anche per le riforme. O si va avanti o si rotola all’indietro.