2002 gennaio 6 Il Vescovo che lascia

2002 gennaio 6 – Il vescovo che lascia. Con la bussola nella società
Quarantaseiesimo patriarca di Venezia, Marco Cè aveva fatto l’ingresso nella sua diocesi l’Epifania del
1979, giusto ventitré anni fa. Lascia il patriarcato anche se continuerà ad abitare a Venezia: in fondo, è
sempre stata casa anche sua, per lui originario della provincia di Crema, della Lombardia veneta come
non ha mai mancato di sottolineare nei suoi libri Sandro Meccoli. Cè non è comunicativo quanto
Roncalli né ama scrivere come Luciani, suoi predecessori a Venezia. Ha fatto il patriarca con molta
discrezione quasi con riservatezza. Il linguaggio per nulla canonico, a me è sempre sembrato un gran
signore. Ricordo, tempo fa, un giudizio di Teresa Foscari Foscolo: «Conosco – mi disse – prelati che
sono personaggi mentre il patriarca Cè è una personalità». Sacrosanto. In ventitré lunghi anni di
trasformazioni anche brutali, il patriarca del Nordest e, sulla carta, della Dalmazia, ne ha viste di tutti i
colori. Ha visto Venezia ridiscutere se stessa da cima a fondo e ha visto il Veneto cambiare conto in
banca. Il cardinale di tutti non si è scomposto, non si è fatto avvicinare dalla politica, ha camminato
dritto verso i problemi, senza scomuniche né indulgenze. Il cardinale Cè ha servito Venezia, e Venezia
lo ha aiutato portandogli in dote una tradizione assai rara di libertà. Città infatti che, per gene della
Serenissima, è laica da sempre, laboratorio senza «clericali» doc e «anticlericali» in servizio
permanente effettivo. Forse, quel tocco riservato di Cè esprime al meglio uno stile di antica data, la via
veneziana al cattolicesimo. Ma sarebbe peccato grave scambiare la discrezione del patriarca per
defilamento. Ha marciato per la pace da sempre, armato di Vangelo e basta. Ha cercato gli ultimi, in
strada, in carcere, nella marginalità. Se posso dire, il suo è stato un patriarcato da Rerum novarum, con
la bussola nella società più che nei poteri. Un paio d’anni fa, parlando ai giovani, Cè raccontò loro di
essersi recato al Santo Sepolcro, a Gerusalemme, ma «non in cerca delle ossa di Gesù. Perché Gesù è
vivo». Ha fatto il pastore sotto gli ori di San Marco, provando anche a cristianizzare i schei del
Nordest, senza tabù od ossessioni pauperistiche. Contro l’imborghesimento, è stata una sua
raccomandazione recente: il benessere va sfruttato come un’occasione, non sciupato. Se c’è un vizio
che disturba molto il patriarca-pastore è la bulimia del vivere. Cioè lo spreco di occasioni anche civili:
lui, così timidamente mediatico, si aspetta sempre molto dalla comunicazione anche se non oserebbe
mai interferire con essa. A Natale, nella basilica di San Marco, si è appellato soprattutto al
«volontariato gratuito», la gratuità dei gesti cristiani. Quando, ieri in cripta, Marco Cè ha letto la lettera
che annunciava il successore, i suoi ventitré anni in terra di missione della modernità sono andati
sottovoce in archivio. In realtà, era una voce alta che si congedava, con la finezza del principe della
Chiesa. Nonostante la scarsa consuetudine con i cardinali, anch’io so che il patriarca Cè ha fatto il suo
dovere. Anche per noi cristiani e laici del Nordest, lo ha fatto per intero.
6 gennaio 2002