2002 luglio 4 I Nordest sono più d’uno

2002 luglio 4 – I Nordest sono più d’uno
I sei milioni e mezzo di abitanti nordestini dispongono di un Pil (prodotto interno lordo) pro capite
superiore di 20 punti alla media d’Italia e di 22 a quella d’Europa, come ha ribadito in questi giorni la
Fondazione Nord Est. Ma il sociologo Ilvo Diamanti, nel chiudere a Venezia la presentazione del
Rapporto 2002, ha già annunciato che nel 2003 proverà a misurare la presunta “(in)felicità” del
territorio. Verrebbe da chiedersi, come fece qualche anno fa Romano Prodi, “ Ma che cosa vogliono
questi veneti?” e, in senso più pregnante, che cosa pretenda mai il Nordest se continua a cavarsela più
che bene in economia. Sta di fatto che se il sistema delle imprese sgomita nella globalità, il sistema
della politica si attesta sull’archeologia. Basta un esempio fra i tanti a fotografare un sotto-tipo di
infelicità qui davvero tipica. L’autostrada che avrebbe dovuto unire Veneto e Friuli nel loro epicentro
industriale, fra Treviso e Pordenone, manca da una vita degli ultimi dieci chilometri. Così è se vi pare,
per una vertenza sull’impatto ambientale. Trevigiano, vice-presidente nazionale di Confindustria,
Nicola Tognana conosce il territorio come le sue tasche e lo considera in fase “riflessiva”, con un
accento locale in più rispetto alla situazione economica generale. Lui ha una preoccupazione e uno
sconforto da confessare. La preoccupazione. “Secondo le stime demografiche – spiega – nel 2021, fra
soli 19 anni, il Nordest avrà la stessa popolazione del 1961! Con 800 mila abitanti in meno, bisogna
decidere subito che cosa fare, a meno che non si voglia semplicemente compensare la denatalità
passando dall’attuale 4 al 15 per cento di immigrati. Pensarci fra dieci anni sarà tardissimo”. Il suo
sconforto riguarda invece la priorità delle priorità, e cioè le infrastrutture, sulle quali è invecchiata
un’intera generazione del Nordest. “Salvo fatti nuovi – conclude il vicepresidente di Confindustria –
negli ultimi 5/10 anni non si è mosso nulla, non è cambiato nulla. Il solo termine che lui ripete due
volte è “nulla””. Passano i governi, passano le maggioranze, passano i patti con gli italiani, passano
elezioni d’ogni ordine e grado, senza che il Nordest registri progressi strutturali. Forse per questo,
prima in Italia, l’associazione artigiani di Vicenza (20.680 imprese, 80 mila dipendenti) ha lanciato la
settimana scorsa una vera e propria scuola di formazione politica per i suoi iscritti mentre, a Treviso, il
settimanale diocesano “La vita del popolo” invita i cattolici all’impegno: “Formiamoci alla politica”,
dice un titolo. Un nuovo fai da te. Tendenzialmente, con l’eccezione di Venezia e di Trieste, il Nordest
si è sviluppato con poco Stato, con poca Pubblica amministrazione, con poco fordismo industriale. Ciò
lo ha spinto ad un atteggiamento non di rado schizofrenico nei confronti del ceto politico. A volte, si
pretendeva che “contasse di più a Roma” ma a volte che si togliesse di mezzo “lasciando fare” al
popolo delle partite Iva; mentre si invocava una classe di potere radicalmente nuova, qua e là
serpeggiava anche una qualche inconfessata nostalgia per i vecchi professionisti della politica. Oggi la
politica ha raggiunto a Nordest l’ultimo stadio del dopo-ideologia, soprattutto nel comune sentire degli
imprenditori. Una recentissima ricerca curata da Daniele Marini per il Sole-24 Ore ha registrato che qui
il 71 per cento degli imprenditori preferisce il centrodestra ma che soltanto il 50 per cento si dichiara
soddisfatto del primo anno di governo Berlusconi. Segno che, tra adesione e soddisfazione, a decidere
sono alla fine i risultati, a Roma esattamente come sul territorio. È la politica del telepass, a mio parere,
essa stessa sognata come una infrastruttura a scorrimento veloce. La politica che, a dispetto delle
appartenenze, badi soltanto a rimuovere ostacoli, barriere, rallentamenti, fatiche del vivere e del
produrre. Un servizio erga omnes. Andrea Pittini, leader degli industriali del Friuli-Venezia Giulia, ne
sa qualcosa di politica a ostacoli, lui che con le sue “Ferriere” e acciaierie (1000 dipendenti,1500
nell’indotto,1000 miliardi di lire di fatturato) muove qualcosa come 200 navi e ventimila vagoni
all’anno, 3/400 autotreni al giorno. “Che senso ha essere efficientissimi in fabbrica – mi chiede
incavolato – se poi abbiamo servizi da Albania?”. Anche se sapessi rispondere, non me ne darebbe il

tempo. “Energia, gas, tutto ci costa di più, e la viabilità a Nordest è una tassa dato che, tempi alla mano,
qui 100 chilometri equivalgono a 250. Bene che vada ci vorranno otto anni per il Passante di Mestre e
altri otto per la Pedemontana mentre il sistema portuale, da Chioggia a Capodistria, vivacchia alla
meno peggio. E c’è qualcosa di peggio all’orizzonte…” Gli domando. E Pittini: “Sento soffiare un’aria
anti-industriale, fatta di tanti segnali, adempimenti, multe, ispezioni, burocrazia, leggi ambientali che si
possono interpretare come gli pare, magari in senso restrittivo come da noi. Se continua così manderò
un fax al ministro dell’Ambiente per invitarlo alla chiusura dello stabilimento! Peccato, perché vedo in
giro un sacco di giovani bravi, che deludere sarebbe un crimine economico”. Lo dice con passione,
Pittini, e aggiunge subito: “O si governa l’economia o non la si può prendere in giro”. Non è momento
per la propaganda a Nordest, anzi le ultime elezioni amministrative hanno mostrato un Veneto dove
vince sempre il moderatismo, ma secondo versioni cangianti, fluide, volatili, a scavalco degli
schieramenti e mai una volta per tutte. “Non si arriva a tutto con Porta a Porta”, commentò in quei
giorni Giuliano Ferrara. Oggi il ceto imprenditoriale veneto sembra pressoché unanime nel tenere a
bada ogni miracolismo o, per meglio dire, l’enfasi della politica. “Me ne frego della politica!”, è il
primo tackle di Mario Carraro, ex presidente degli industriali veneti, da sempre in prima linea sui temi
del Nordest e dell’innovazione. La sua tesi è lineare. ”Smettiamola – chiarisce – con il forte legame tra
economia e politica, fra l’altro nel vecchissimo schema destra/sinistra come se si potesse stabilire un
rapporto diretto di causa ed effetto. L’America insegna: i grandi crolli finanziari dell’era di Bush si
sono formati nell’era di Clinton. Insomma, vorrei una politica dell’evoluzione, questa vorrei, una
politica che prepari le condizioni per il futuro, dall’immigrazione alla formazione dei ragazzi fino alla
difesa del territorio. Per noi poi non si tratta di contare di più a Roma, ma di contare di più in Veneto”.
Fa una pausa Carraro, per completare: “Non sono un anti-Galan (governatore del Veneto, ndr) ma
effettivamente ha ragione Treu quando dice che in Regione non si sente più parlare di federalismo e di
Statuto proprio quando è arrivato il momento del progetto”. In parole povere, o la politica è progetto o
non è. Nessuno fa più riferimento al consunto “gigante economico nano politico” per definire il
Veneto, ma le conclusioni sono anche più radicali. Luigi Rossi Luciani, 57 anni, padovano, presidente
di Confindustria veneta, sintetizza così la “distanza” della politica: ”Abbiamo distrutto una classe
politica, ne abbiamo fatta un’altra, ci sono molti neofiti, mi auguro che emergano finalmente i
migliori”. E Mario Moretti Polegato, 49 anni, trevigiano, presidente della Geox, non fa sconti: “La
politica – dice sicuro – non c’è, non c’è. Se per realizzare una infrastruttura vitale non si riesce a
superare il no di un sindaco o di una associazione faunistica, possiamo noi imprenditori dire che la
politica c’è?” No, gli ho risposto. Ma il Veneto non esaurisce il Nordest. Da questo punto di vista, i
Nordest sono semmai più d’uno, nel nome di una grande diversità anche istituzionale, a cominciare
dalle specialissime autonomie di Trento e di Bolzano. “L’autogoverno è la nostra politica vincente”,
scommette Gianfranco Pedri, imprenditore metalmeccanico di Rovereto, alla guida degli industriali
trentini. Lo afferma con forza Gino Lunelli, 4 milioni e mezzo di bottiglie di spumante Ferrari all’anno
che gli fanno dire: ”Sono uno spacciatore di bollicine e di felicità”. Il suo teorema è da manuale del
federalismo: “Per noi fare politica è amministrare qui. Non esiste Roma, con le sue reti lunghe e
perdenti. La politica migliore per il futuro è a reti corte, per questo non siamo nani”. Non è
sorprendente, a mio avviso. Più autonomia, meno frustrazione.
4 luglio 2002