2002 novembre 16 Statuto in ritardo
2002 novembre 16 – Statuto in ritardo. Federalismo incompiuto per il popolo del Veneto
Lo Stato, i ministeri, la burocrazia, sono entità astratte ma noi siamo riusciti a vederle benissimo in
faccia e a distanza molto ravvicinata. È stato il terremoto a mostrare in diretta televisiva una certa
eterna Italia ministeriale, l’ultimissimo made in Italy burocratico che ha fatto l’altro giorno il giro del
mondo con scenette che, a dispetto del luogo e del dramma, sembravano spezzoni di Stanlio e Ollio. Il
ministro competente aveva ordinato una inchiesta sul crollo della scuola di San Giuliano di Puglia,
nominando tre superesperti che un alto funzionario del ministero aveva prontamente fornito di mappe.
Ma, attenzione, le mappe di un asilo tuttora in piedi al posto di quelle della scuola crollata sui bambini.
Partiti senza perdere altro tempo, i solerti esperti hanno lavorato in lungo e in largo sul posto del
disastro senza accorgersi di nulla, finendo così per svelare in piena conferenza stampa le ragioni della
caduta della scuola attraverso i dati dell’asilo che con la scuola non c’entrava nulla. Il tutto in diretta tv,
allo spiedo della pubblica opinione non soltanto italiana. Il ministro ha licenziato gli esperti
ministeriali; avrebbe fatto cosa ancora più utile licenziando il ministero al gran completo e ripartendo
da zero. Nei primi giorni del terremoto del Molise, altre mappe avevano messo a nudo l’eterno
girotondo delle competenze burocratiche, vent’anni di prevenzione sismica tenuta per una ragione o per
l’altra nei cassetti di uffici e soggetti incomunicabili. Un esempio da manuale di uno Stato soltanto
costoso, il nostro. Eminenza grigia dell’esecutivo, Gianni Letta ha bisbigliato nella circostanza: «Il
federalismo impone al governo di fissare i criteri, ma poi stava alle Regioni fare le mappe sismiche».
Già, il federalismo, carta igienica del riformismo all’italiana. Meno ce n’è, più lo si risparmia. Negli
ultimi cinque anni, c’erano tre strade per arrivare al federalismo: la Commissione bicamerale,
un’Assemblea costituente, il Parlamento. La prima è morta. La seconda mai nata. Il terzo modifica un
articolo qua un articolo là della Costituzione: è il federalismo alla spicciolata, privo sia di visione
d’assieme sia di spirito super partes. Trasformismo più che cambiamento, pelle più che ossatura.
Mostra solo la superficie del federalismo; per adesso un bel guscio mezzo vuoto, anche se l’Italia
sarebbe tagliata su misura per una costituzione radicalmente federale. Ne avrebbe bisogno come del
pane, per far funzionare meglio il macchinone. «Il federalismo costa troppo»: ci vuole un bel coraggio
a dirlo nello Stato prediletto del debito pubblico. L’inefficienza costa, non il governo federale del
territorio. Questa la realtà. Per un effetto moltiplicatore sui cittadini, lo Stato risulta più burocratico
della sua stessa burocrazia. E oggi appare paradossalmente più centralista di ieri dato che Comuni,
Province e Regioni si vedono aumentare competenze, funzioni, ruolo, ma semmai diminuire gli euro
con cui far fronte al federalismo alla spicciolata. Basti pensare alla legge finanziaria, trasformatasi via
via in una corsa all’accattonaggio degli enti locali nei confronti dello Stato. Segno più che lampante
che le «autonomie» sono finanziariamente agli arresti domiciliari. Contro lo Stato delle procedure, a
mio parere il federalismo resta più che mai un’idea forte di Stato leggero, alleggerito più che si pu
della manomorta burocratica. Stato leggero e Regioni leggere, tanto più forti quanto più leggere, vale a
dire meno ingolfate dalla gestione. In assenza di questa idea fondante e senza paura, non ci sarà
federalismo in Italia. Enrico Cavaliere, presidente leghista del Consiglio regionale del Veneto,
considera questa «una visione romantica», mentre Manuela Dal Lago, presidente leghista della
Provincia di Vicenza, replica nel nome dei «piccoli passi». Flavio Zanonato, ex sindaco diessino di
Padova, lamenta invece il «silenzio» federalista che circonda in questa fase il Veneto. Su una cosa ci si
pu trovare tutti d’accordo. Siamo in una fase molto faticosa, e l’economia non aiuta a prestare
abbastanza attenzione alla forma di Stato. Ma, volenti o nolenti, è l’ora degli Statuti regionali. In tutto il
Nordest tira aria costituente e/o riformista. Ora, fra modifiche costituzionali (del centrosinistra nel
2001) e promessa devolution (del centrodestra nel 2003), le Regioni speciali saranno alla lunga un po’
meno speciali e le Regioni ordinarie un po’ meno ordinarie. In parole povere, domani Friuli-Venezia
Giulia e Veneto si assomiglieranno più di oggi, con Pordenone città plurale e bifronte a fare da sponda
a entrambi. Lo Statuto ordinario del Veneto risale al 1970 e a dire il vero fu profetico anche nel
linguaggio. A cominciare dal soggetto «popolo veneto» per finire alle forme dell’«autogoverno». Ma
proprio in questi trent’anni il Veneto è cambiato in profondità e, soprattutto, a una velocità
impressionante. Il suo nuovo Statuto dovrà attestare al meglio questa rivoluzione diffusa e
accompagnare la successiva. Giancarlo Galan e la Lega Nord hanno due idee diverse dello Statuto. Il
primo ragiona da presidenzialista, vuole che governi il governatore con la sua giunta; la Lega tende a
far pesare più di oggi il Consiglio, cioè il parlamento veneto. Sono differenze mica da poco, anche
rognose. In mezzo a un diluvio incrociato di Bassanini, di modifiche costituzionali, di competenze
concorrenti fra Stato e Regioni, di devoluzioni e di leggi da attuare nero su bianco, il ritardo del via allo
Statuto potrebbe perfino servire adesso a fissare meglio l’evoluzione. Ma altri ritardi sarebbero paralisi
del federalismo possibile dal basso, lo Statuto di autonomia. In Parlamento, nel luogo più politico, il
papa ha ricordato alla «diletta» Italia che le «forzate uniformità» impoveriscono e che il nostro Paese
dovrebbe al contrario «valorizzare le differenze». Abbiamo anche la benedizione apostolica.
16 novembre 2002