2002 ottobre 13 Crisi Fiat

2002 ottobre 13 – Crisi Fiat

Per salvare la Fiat, è stato invocato ogni tipo di intervento possibile e immaginabile. Intervenga lo
Stato. Intervenga il governo. Intervengano le banche. Intervengano gli americani della General
Motors anticipando l’acquisto. Intervengano i governatori regionali interessati. Intervengano gli
Agnelli, i capitali libici, i tedeschi. Bertinotti vorrebbe nazionalizzarla come se Torino fosse
Togliattigrad. E chi consiglia, magari a partire dal Nordest, che siano le imprese italiane sempre a
caccia di bravi operai e di bravi tecnici ad assumere il più possibile tra i cosiddetti “esuberi” della
ex vasta gamma produttiva.
Premesso, ovviamente, che la crisi della Fiat annuncia un’emergenza troppo grossa perché sia
sufficiente un solo intervento, è proprio vietato porsi a questo punto la seguente domanda: perché,
invece di pretendere soltanto interventi pubblici, non intervengono in massa anche gli automobilisti
italiani come privati cittadini? La si chiami provocazione o passeggiata tra le nuvole, eppure è una
domanda che va fatta.
Il solo strumento a disposizione per rispondere a tono sarebbe beninteso l’acquisto di Fiat a più non
posso, di questo si tratta. Nel 1935 Mussolini pretese milioni di fedi nuziali d’oro per finanziare le
sue guerre coloniali; in democrazia, l’”oro alla Patria” sarebbe oggi pacifico come una Panda, una
Stilo, una Lancia Lybra o un’Alfa Romeo 166 della costellazione Fiat.
Se ho ben letto il mensile “Quattroruote” di ottobre, è di marca straniera il 70 per cento abbondante
delle auto nuove immatricolate in Italia; soltanto il 30 per cento scarso è di marca italiana,
praticamente monopolio della Fiat. Gli ultimi dati di riferimento sono questi:140 mila vetture estere
contro 61 mila italiane, troppo poche.
In parole molto povere, invece di nazionalizzare la crisi della Fiat a spese dello Stato, cioè dei
contribuenti, sarebbe come se la Fiat venisse privatizzata in massa dagli automobilisti italiani.
Insomma, salvare la Fiat attraverso la mobilitazione del mercato interno.
Non che si debba imitare, per carità, il parossismo nazionalistico di una Corea del Sud, dove più del
90 per cento delle auto in circolazione è rigorosamente di fabbricazione coreana per unanimismo
popolare di bandiera! Solo che, di fronte a una crisi tanto acuta, un Paese di nerbo dovrebbe a mio
avviso essere capace anche di una reazione industrialmente patriottica.
I casi sono due.
O la Fiat è un’industria come tante, diversa soltanto in termini quantitativi, e allora seguirà la sua
strada strettamente economica. Oppure rappresenta qualcosa di speciale per il peso stesso dell’Italia,
ma allora sarei l’ultimo italiano a stupirmi se un presidente come Ciampi usasse il messaggio
televisivo di fine anno per lanciare il 2003 dell’auto made in Italy.
Un appello anche culturale. Il contrario dello spot.
La Fiat ha la Ferrari ma, per paradosso, fa fatica a indovinare nuovi modelli di auto per noi
consumatori molto provinciali e dunque esterofili. Se i motori delle auto diesel di tutto il mondo
hanno fatto in questi anni un salto portentoso lo si deve a un brevetto ceduto dalla Fiat, ma adesso
Mirafiori paga anche una sindrome da ricerca.
E’ piena di contraddizioni questa fase. Nelle stesse ore convivono le parole “crisi” e “rilancio”; i
tagli con i piani di rilancio; i titoli spazzatura assieme alla fame di investimenti.
Capitalisticamente parlando, non è nemmeno simpatica la Fiat, tanto meno a Nordest. Qui il
capitalismo in canottiera ha sempre visto nella Fiat anche il salotto del privilegio, la cosiddetta
privatizzazione dei profitti accompagnata dalla socializzazione delle perdite.
In essa ha visto il monopolio, una sorta di azienda privata di Stato, un potere nel potere. Un
generatore di indotto ma, allo stesso tempo, qualcosa di totalmente altro rispetto ai cinque milioni di
partite Iva.
Tutta vera l’incomprensione. Tra il grande e il piccolo, tra l’aristocrazia del capitale e la sua
versione plebea, tra il familiare multinazionale e il familiare locale.

Ciò non toglie che la Fiat sia storia industriale d’Italia, suo massimo e suo declino. Leadership
anche, laboratorio, scuola operaia. E’ tante cose anche nobili la Fiat, e lo dice uno che dieci minuti
dopo aver acquistato una Duna nuova di zecca restò bloccato in autostrada perché il carburatore
protestava e perché il portellone posteriore si apriva in corsa!
Facezie a parte, la crisi della Fiat merita secondo me una riflessione collettiva anche sul lavoro, sui
posti di lavoro, sulla nostra economia complessiva. Merita tutto questo attraverso il mercato
nazionale dell’auto prima che attraverso la cassa integrazione.
Dalle nostre parti vedo oramai la polizia con macchine giapponesi, i vigili urbani con vetture
tedesche. Sì, è verissimo, siamo in Europa e le amministrazioni pubbliche devono fare i conti più
convenienti.
Non so tuttavia se oggi sia ragionevole fingere che, di colpo, essere italiani non significhi più nulla,
nemmeno al volante.
Bandiere al vento per la Ferrari e chissenefrega del listino Fiat.

Giorgio Lago