2003 agosto 31 Un Senato da riformare
2003 agosto 31 – Un Senato da riformare
Riforme, “riforme in dubbio”, “riforme ultimo atto”, “riforme intesa”, dicono i titoli dei giornali di ieri.
La parola più consumata d’Italia continua ad essere “riforma”. Se poi la riforma di turno riguarda le
forme dello Stato, allora si consumano perfino i ricordi di tre commissioni bicamerali che hanno buttato
al vento tempo, lavoro e denaro pubblico senza combinare un tubo. Tonnellate di carta giallina in
archivio e basta. Noi eleggiamo più di trecento senatori mentre agli Stati Uniti, con una popolazione sui
300 milioni di abitanti, ne bastano cento! Un po’ di pudore comparato avrebbe dovuto consigliare già
da un pezzo ai nostri presunti riformatori almeno questo salutare taglio a Palazzo Madama. Destra e
sinistra mettono anzi in programma di ridurre drasticamente i quasi mille parlamentari che abbiamo tra
Camera e Senato. Poi, arrivederci e grazie, come non detto, da anni. Tagliato di un buon terzo e
destinato a diventare il parlamentino delle Regioni, da solo il nostro Senato costerebbe molto meno e
renderebbe molto di più. Questa ad esempio sarebbe una riforma dettata, più che dalla politica, dal sano
buon senso popolare che non c’entra niente con il populismo. Poiché tocca direttamente le tasche dei
contribuenti, facendo risparmiare alle casse dello Stato poltrone, indennità, cariche, portaborse, peones,
inefficienza, auto blu e privilegi d’altri tempi, una riformetta del genere invoglierebbe gli italiani cento
volte di più di quella che riguarda l’elezione del “premier”, in sostanza del presidente del Consiglio. In
Cadore ne hanno parlato davanti a una bella polenta da tagliare con lo spago, ma questa del premier è
“roba” (come la chiama l’on. Bossi) o “robaccia” (come la definisce il prof. Sartori) a mio modesto
parere di nessun impatto con l’opinione pubblica. Da un infimo sondaggio che ho spavaldamente fatto
in questi giorni con qualche conoscente, mi sono davvero reso conto che approfondire questo tema
equivale a discutere del sesso degli angeli. La ragione è molto pratica. L’elettore comune non può
capire nulla di questa storia del premier da eleggere direttamente o quasi, con scheda o quant’altro, dal
momento che la gente ha la nausea dei cavilli istituzionali amando andare al sodo. E il sodo le dice che
siamo già abituati da anni a scegliere all’italiana il nostro premier, o Berlusconi o Prodi o chi altro.
Nell’immaginario popolare, il bipolarismo è già perfetto, o di qua o di là, o con il centrosinistra o con il
centrodestra, domani con Berluskaiser e con Mortadella. Che altro serve? Sotto la scorza della riforma
del “premierato” si nasconde in realtà una dura partita di potere e di poteri, che riguarda tanto
Berlusconi quanto Ciampi, ma non è certo questa la riforma urgente. Urge ristrutturare i poteri tra
centro e periferia, questo conta il doppio, se si intende far funzionare meglio l’Italia puntando
sull’unica materia prima di cui siamo ricchi: la voglia di auto-governo sul territorio. Ma perfino su
questo residuo di federalismo , che sarebbe poi il bonsai della devoluzione, diventa obbligatorio lo
scetticismo. A turno, tutti tendono a bloccare tutto e così quel po’ che rimane cammina molto
lentamente. La riforma cosiddetta federalista, imposta nel 2001 dal centrosinistra, è in attesa di pia
attuazione. La riforma blindata oggi da Berlusconi, anche se iniziasse il suo cammino parlamentare
domani mattina, arriverebbe forse a destinazione nel 2006. Tuttavia, nel 2006 si voterà alle elezioni
politiche e, se putacaso vincesse il centrosinistra, scatterebbe con tutta probabilità la controriforma. A
ciascuno la sua riforma di parte. L’Italia può aspettare. Il bello è che noi italiani dovremmo essere tutti
dei costituzionalisti nati, gente che ha chiarissime in testa le due idee su cui poggia lo Stato: la sua
sovranità e le autonomie del suo territorio. Viviamo infatti in un Paese molto vario, forse unico. Ci fu
un momento, alla fine della seconda guerra mondiale, in cui la Sicilia si considerò così indipendente da
proporre di farsi annettere dagli Stati Uniti! Altro che “ la Padania che se ne va”. Abbiamo in una
Costituzione unitaria una regione speciale di lingua franco-provenzale (Valle d’Aosta), una regione
specialissima (Trentino – Alto Adige/Sudtirol) fondata su un accordo internazionale, una regione (Friuli
– Venezia Giulia) inventata a tavolino lungo la cortina di ferro, una regione (Sardegna) cui non basta
mai la dose di identità. Una regione ordinaria (Veneto) che ragiona esattamente come le speciali.
Questo solo per chiarire che, a proposito di sovranità e/o autonomie, l’Italia non dovrebbe ormai temere
niente e nessuno. Ha sperimentato largamente; ha verificato i fallimenti di ogni secessionismo;
potrebbe fare le sue belle riforme federali con il sorriso sulle labbra, persino con uno slancio di
“interesse nazionale” tra maggioranza e opposizione. Ma non siamo riformisti. Siamo dei fifoni da
manuale. Quando il laburista Tony Blair scese in campo in Inghilterra dichiarò di sapere benissimo che
cosa Galles e Scozia chiedessero a lui e a Londra: “La gente vuole – disse testualmente – maggiore
controllo sui propri affari”. Adesso in Italia stiamo tremando come foglie soltanto perché la Regione
Calabria ha scelto nel suo neonato Statuto di votare con il sistema proporzionale anziché con quello
maggioritario! La verità è che temiamo anche le nostre ombre e che ci sentiamo sicuri soltanto con le
riforme mancate.
31 agosto 2003