2003 agosto 9 Nordest

A causa di qualche guaio fisico, negli ultimi due mesi mi ero perso per strada un po’ di notizie, una
in particolare: il Nordest non esisterebbe più! Ma proprio più, finito, esaurito, fallito, sbagliato, pre-
fallimentare, inerte e sbullonato, tutto da rifare o da ripensare da cima a fondo come sostengono
all’unisono plotoni di osservatori.
Un’area in crisi nera, povero Nordest, un catorcio economico, una fabbrica di schèi in disuso, uno
schifo industriale,una landa sterminata di capannoni che incarnerebbero da soli tutto il male di
un’intera generazione di imprenditori. Se così fosse, sarebbe roba da suicidio collettivo, ma per
fortuna così non é. Siamo abituati da anni ai de profundis delle tante congiunture , eppure la zoccolo
duro tiene, e di solito tende a smentire proprio chi non ha mai amato questo capitalismo per tutti,
ricchissimo di rivincite sociali, povero di credenziali e debole di capitali.
Molti analisti sbagliano da anni sul Nordest; continuano a equivocare, amen. Alcuni poi lo hanno
studiato con la puzza sotto il naso o con l’occhio obliquo della politica, dunque mai con equilibrio.
Perciò si assiste da tempo a un andamento a volte comico.Può accadere che, nello stesso giorno, un
titolo dica “Continua il miracolo Nordest” e un altro avverta “Ora per il Nordest é crisi”. Fa lo
stesso.
Una volta nelle campagne padovane la religiosità popolare pregava San Bovo perché nelle stalle
proteggesse gli animali dalle malattie e Santa Eurosia perché tenesse alla larga la grandine dai
raccolti. Noi, di fede assai meno rurale, non sapremmo a che santo votarci per sventare oggi il
flagello degli esperti di Nordest, intellettuali e religiosi, catastrofisti e pianificatori, manager e
modellatori, quelli che ora decretano in coro la fine del “modello” di sviluppo nato dal basso ( senza
di loro) e che predicano dall’alto un “modello” nuovo di zecca (tutto loro).
E noi dovremmo mandare in depressione il Nordest che c’é sognando un Nordest che nessuno sa
spiegare come dovrebbe essere da subito, pronti e via, senza aspettare i soliti trent’anni necessari a
covare qualche tonnellata di studi, progetti, idee qua e idee là, consulenze, annunci, conferenze
stampa, convegni, patti di scena, consorzi sulla carta, poteri teorici, finzioni territoriali degne di
Emilio Salgari?
Di una sola cosa mi dichiaro sicuro: il vecchio modello Nordest fu inventato dagli imprenditori e
dai lavoratori. Il “modello”nacque da solo; poi gli studiosi lo spiegarono per dritto e per rovescio a
chi lo aveva costruito con le proprie mani!
Accadrà esattamente la stessa cosa oggi e domani: faccia a faccia con la rivoluzione globale del
mercato, il Nordest farà la sua rivoluzione in azienda, sul campo, affrontando una grana
competitiva dopo l’altra. Sarà meno solo che nel passato, ma lo sarà ancora, con le sue forze, quasi
mai assistito.
Di fronte agli alti e bassi della vita, un personaggio letterario dello scrittore trevigiano Giovanni
Comisso invita a non aver paura:”Con le braccia che abbiamo – dice – entro due anni saremo più
ricchi di prima.” Adesso, come noto, le braccia contano infinitamente meno ma la voglia di
garantirsi il benessere è la stessa. Il Nordest non ha affatto mollato; sa che la partita si é fatta cattiva
ovunque.
A costo di ripetermi fino alla noia, bisognerebbe sempre ricordare qualche lapide di questo
territorio. Alla fine dell’Ottocento il primo pellagrosario d’Italia sorge in Veneto, a Mogliano, tanto
per fissare lo “sviluppo” di partenza. E cinquant’anni fa lo scrittore vicentino Guido Piovene ha la
sensazione, entrando in Friuli, di superare una invisibile muraglia e di visitare un territorio quasi
arcaico.
Non siamo mai stati la California, da Trento a Venezia. Perfino il termine Nordest era assente dai
dizionari come mix di una certa società post-contadina e di un’economia parcellizzata al massimo,
al contrario di Lombardia, Piemonte e Liguria.
Quel Nord si godeva il suo possente “triangolo industriale”. Noi, con rare eccezioni di grande
manifatturiero, eravamo il culo di sacco dell’imprenditoria nascente, alla stato brado. Un moto
economico popolare, si direbbe, più che un investimento diffuso.
Il Nordest viene costruito in 35 anni. 35 anni fa aveva un Pil da zona depressa. Questo Nordest é
grosso modo figlio di una generazione. Una sola generazione, ci siamo capiti?

Questa generazione meriterebbe un monumento all’Imprenditore Ignoto, che li comprenda tutti. Si
sono inventati l’export in dialetto; hanno delocalizzato assai prima che se ne accorgessero i docenti
della globalizzazione. E la storia continua oggi con mille esempi: la de’ Stefani di Padova andrà a
produrre i suoi ingranaggi in Cina, alla faccia del “pericolo giallo” profetizzato per primo da Benito
Mussolini.
Certo, anche il Nordest ha problemi, fatiche, cambiali da pagare. Ci mancherebbe: ne ha avuti di
grossi anche la mitica e super tecnologica Silicon Valley in California, che ha licenziato un
dipendente su sei.
Azienda italiana a maggior potenziale di ricerca, abbiamo poi visto che cosa ha combinato la Fiat in
questi anni nonostante fosse una mezza mantenuta dallo Stato. Hanno fatto più ricerca a Nordest
l’incompresa Marghera e la straordinaria Electrolux Zanussi che la protezionistica Fiat.
Il Nordest ha fatto fin troppo. Con le infrastrutture fantasma, con la burocrazia improduttiva, con le
università pachidermiche, con il fantomatico “sistema Italia” che é tale e quale al “sistema
Nordest”, cioé non é un sistema.
E’ una storia invecchiata con noi. Il Nordest privato si é fatto da solo; il Nordest pubblico é tuttora
in lista d’attesa e , se tutto va bene, sarà a regime fra dieci anni. Altro che fallimento del
“modello”economico.
Dopo decenni di anarchia, provate finalmente a fornire il vecchio Nordest degli strumenti pubblici
di un territorio attrezzato alla competizione, e poi vediamo. Fate questo e basta; al resto provvederà
il Nordest, come fece al tempo dei Pionieri.
E’ piuttosto il cambio generazionale, tra creatori d’azienda e figli/manager, la vera insidia del
Nordest. Mi racconta un lettore di Mestre di figli di padri fondatori che utilizzano la legge Tremonti
bis per prendersi lussuose auto sportive intestandole alla ditta di famiglia.
Questo ictus culturale preoccupa. Più della Cina e più dei ciclici annunci sul Nordest in braghe di
tela.