2003 aprile 16 Bush/1

2003 aprile 16

Bush/1

Prima domanda del dopo-Baghdad: su che cosa si fonda la strategia preventiva di Bush?

Risponde Bob Woodward, firma di punta del Washington Post, giornalista che svelò lo scandalo
Watergate provocando nel 1974 le dimissioni del presidente repubblicano Nixon.
Woodward ha scritto otto best-seller. L’ultimo, da un mese nelle librerie italiane (editore Sperling
& Kupfer), analizza “La guerra di Bush”. E la nuova politica americana.

“ Il presidente credeva che una tattica di prevenzione fosse l’unica alternativa possibile per non
aspettare passivamente gli eventi. La sua analisi era più inquietante di quella che spiegò in pubblico.
All’inizio del XXI secolo le realtà erano due: un altro attentato simile a quelli dell’ 11 settembre, e
la proliferazione di armi batteriologice, chimiche e nucleari. Se queste due possibilità si fossero
trovate a convergere in un’organizzazione terrorista o in un governo favorevole al terrorismo, gli
Stati Uniti avrebbero potuto subire un nuovo attacco in cui avrebbero trovato la morte decine o
forse centinaia di migliaia di persone. Inoltre, Bush e i suoi collaboratori avevano scoperto che
proteggere gli Stati Uniti era praticamente impossibile. Anche incrementando al massimo i sistemi
di sicurezza e diffondendo allarmi generali, il Paese era solo relativamente sicuro. Ma che cosa
sarebbe accaduto se fosse stato sferrato un attentato con armi nucleari? Una nazione libera sarebbe
diventata uno Stato di polizia. Che cosa avrebbero pensato i posteri ( e i contemporanei) di un
presidente che non avesse agito in modo aggressivo per prevenire una tale minaccia? L’ 11
settembre aveva insegnato che era meglio preoccuparsi delle minacce in anticipo.”

Saddam/2

Seconda domanda: che cosa dovrebbe significare la democrazia in Iraq?

Risponde Magdi Allam, 51 anni, egiziano del Cairo, ex corrispondente dell’Ansa, oggi
commentatore e inviato speciale di “Repubblica” .
Allam conosce il Medio Oriente dal di dentro ed é , a mio parere, anche il giornalista più informato.
L’ultimo suo saggio, appena pubblicato da Mondadori, documenta l’Iraq di Saddam dalla A alla Z.

“Se si parte dal presupposto, falso e infondato, che esista un’unica nazione irachena che deve
obbligatoriamente identificarsi in uno Stato centralizzato, l’Iraq non potrebbe essere governato che
in modo autocratico. L’Iraq che noi conosciamo è una creatura artificiale del colonialismo
britannico all’indomani della dissoluzione dell’ultimo Impero islamico turco-ottomano. L’Iraq potrà
diventare uno Stato democratico soltanto se si partirà dall’accettazione della pluralità. E’ vero che i
curdi sono prevalentemente nel Nord, ma sono presenti anche al Centro e al Sud. Lo stesso vale per
gli sciiti e per i sunniti. Inoltre la vitale ricchezza petrolifera, presente principalmente nel Nord e nel
Sud, deve essere a disposizione dell’intera popolazione. Concretamente, bisogna partire dal basso,
dalle realtà territoriali. Il nuovo Iraq potrà essere democratico se si libererà della gabbia dello Stato
nazionale.”

Islam/3

Terza domanda: come può modernizzarsi l’Islam?

Risponde il prof. Bernard Lewis, storico americano, internazionalmente noto per l’autorevolezza
mediorientale.
Lo ha intervistato Fiamma Nirenstein, inviata permanente a Gerusalemme per “La Stampa”e
docente di storia del Medio Oriente a Roma. Il suo saggio-intervista , “Islam: la guerra e la
speranza”, é in libreria da poche settimane (editore Rizzoli).
“Il punto è che la cristianità è ora al suo ventunesimo secolo di storia. L’Islam è all’inizio del
quindicesimo. L’Islam non ha ancora affrontato la questione delle relazioni tra religione e Stato.
Dopo la Riforma protestante il mondo cristiano è stato sconvolto da secoli di guerre e persecuzioni
interne. L’Islam non ha vissuto tutto ciò. Le differenze all’interno dell’Islam sono talvolta
drammatiche, ma niente di simile alle guerre tra protestanti e cattolici. L’Islam in questo senso era
più tollerante verso coloro che dominava. Il cristianesimo inizia a essere tollerante con gli altri solo
quando arriva alla separazione tra potere politico e Chiesa. Ma se si chiede conto a un musulmano
della sua storia, ovvero della mancata separazione tra Stato e Chiesa, dirà: ‘ E’ un rimedio cristiano
per un male cristiano, con noi non ha niente a che fare.’ Oggi però io risponderei: ‘Adesso vi siete
ammalati voi. Per guarire dovreste provare con il rimedio cristiano ’, ovvero la separazione tra il
potere politico e la religione.”

Pace/4

Quarta domanda: che cosa potrebbe favorire la pace?

Ha risposto già nel 1991 il sociologo tedesco Karl Otto Hondrich ( vedi la rivista “Micromega” del
maggio di quell’anno). All’indomani della guerra del Golfo di Bush senior contro Saddam, lo
studioso dimostrò di aver capito ciò che una legione di “esperti” pacifisti tuttora ignora.

“La guerra del Golfo pone anche gli europei di fronte ad una drastica alternativa: o concedere agli
Stati sovrani del mondo non industrializzato il diritto alle loro guerre egemoniche e di produrre e
comprare armi distruttive che possono essere rivolte anche contro di noi, oppure costruire un
condominio commerciale e militare in una nuova “pax americana et europea”. L’orrore verso la
guerra non ci aiuta ad uscire dal dilemma. Siamo condannati al dominio.”

Europa/5

Quinta domanda: quali i futuri rapporti di forza tra Europa e Usa?

Risponde Robert Kagan, americano, uno dei maggiori studiosi di politica estera. Per quattro anni ha
lavorato al Dipartimento di Stato di Washington.
In questi giorni è arrivato nelle librerie italiane il suo “Paradiso e Potere”: America ed Europa nel
nuovo ordine mondiale (editore Mondadori). Sul tema del giorno, è il miglior saggio in
circolazione.

“A meno che non succeda qualche improvviso cataclisma, è ragionevole presumere che sia appena
iniziata una lunga era di egemonia americana. Le proiezioni demografiche dimostrano che la
popolazione statunitense cresce più in fretta e diventa più giovane di quella europea, la quale
continua a declinare e invecchiare. Se si confermerà l’attuale tendenza, scrive “The Economist”,
l’economia americana, che ora è grosso modo pari a quella europea, potrebbe diventare il doppio
entro il 2050. Oggi l’età media degli americani è di 35,5 anni, quella degli europei è di 37,7. Nel

2050 l’età media americana sarà di 36,2 anni e quella europea, se il trend non cambierà, sarà di 52,7
anni. E allora l’onere finanziario per provvedere alle persone non più autosufficienti sarà molto più
alto in Europa che negli Stati Uniti. Di conseguenza nei prossimi anni e decenni gli europei avranno
a disposizione ancora meno soldi da investire nella difesa. “Nel lungo periodo” conclude il
quotidiano londinese “la conseguenza logica di questo andamento demografico sarà un probabile
rafforzamento della potenza americana”.