2003 dicembre 7 Televisione
2003 Dicembre 7 – Televisione
Se ne parla da giorni come del nostro pane quotidiano ma confesso che se qualcuno mi domandasse
a bruciapelo che cosa sia la televisione digitale terrestre prossima ventura, farei scena muta. Non lo
so; ho capito a fatica che ha a che fare con i numeri e che moltiplicherà ancora il numero dei canali
tv a disposizione. Stop.
Del resto mi trovo in buonissima compagnia visto il risultato di un mio micro sondaggio popolare
con 13 persone incontrate ieri per strada. Alla seguente domanda:” Ha capito dalla tv che cosa sia il
digitale?”, la risposta é stata 13 volte no, senza esitazione no . Quando poi aggiungevo “terrestre” a
digitale, lo smarrimento toccava giustamente punte extra-terrestri per reazione uguale e contraria.
La ragione é semplice: intanto, la tv non spiega bene la tv, dà tutto per scontato come se noi utenti
comuni fossimo tanti premi nobel dell’informatica. Inoltre, digitale terrestre o lunare che sia, non
importa niente a nessuno scoprire attraverso quale ultima tecnologia la televisione abbia trovato per
i prossimi anni altro immenso spazio nell’etere.
Ai telespettatori, che sono oltre il 90% della popolazione italiana, interessa semmai capire chi,
come e quanto potrà fornire questo nuovo oceano di immagini. La sola Mediaset, tanto per
esemplificare i volumi in ballo, programma oggi dai suoi canali quasi 30 mila ore di trasmissioni
all’anno.
Di per sé la televisione digitale non migliora né peggiora l’informazione: sarà un’evoluzione
tecnica, uno strumento in più, un mezzo che sulla carta aumenta la comunicazione ma che in realtà
potrebbe concentrarla in poche mani ancora più di oggi. Costando un occhio della testa in
investimenti, probabilmente se la potranno permettere subito le super dominanti Rai e Mediaset
con tanti saluti al pluralismo di altre fabbriche di notizie in una società mai così plurale.
E’ nata male la televisione in Italia.Era destino, e si vede da vicino. Più che un sistema, é un
accidente.
Prima la tv pubblica, in regime di monopolio di Stato come il sale e i tabacchi, fu padrona assoluta
del piccolo schermo contro ogni prudenza liberale. Maestro in materia, Luigi Einaudi predicava
invano che solo la concorrenza riesce a ottenere un benefico effetto sociale.
Poi la tv commerciale, pur facendo benissimo alla concorrenza, nasceva allo stato brado, nel vuoto
legislativo detto Far West. Se le regole tacciono, alla lunga vincono i favori e i denari. Così il
monopolio é diventato duopolio, cioè un unico ferreo monopolio a due teste.
Però non facciamo gli ipocriti di fronte alla perenne guerriglia sulla televisione pubblica (da
privatizzare) e sulla privata ( di pubblica utilità). Nonostante tutto maggioranza e opposizione
avrebbero trovato alla fine un compromesso, forse addirittura una legge di buon senso digitale.
Ma c’é di mezzo il cavaliere onorevole presidente Silvio Berlusconi, primo in Italia per ricchezza
imprenditoriale, premier d’Italia per ruolo istituzionale. L’ostacolo ad una legge equilibrata sta tutto
qua, nell’arcinoto squilibrio ad personam tra Arcore e palazzo Chigi.
C’entra poco o niente la tv in sé, e tanto meno il ministro delle telecomunicazioni di turno. C’entra
lui, il cav. on. da dieci anni titolare di due poderosi interessi ovviamente in conflitto tra loro, il
pubblico e il privato, per distinguere i quali servirebbe appunto un decoder costituzionale.
Storia oramai vecchia, quasi noiosa, ma cronica come una malattia di sistema. Altro che digitale, il
dito nell’occhio di un Paese moderno indica sempre la confusione di potere economico e politico
che il centrosinistra non ha saputo disciplinare e che il centrodestra ha di fatto garantito.
Classe 1936, Berlusconi é da un quarto di secolo il magnate del video, il capitalista dell’antenna, un
tycoon via via di livello europeo. Con 350 emittenti su piazza non era certamente il solo rampante
negli anni settanta, ma diventò in fretta e furia il settimo contribuente milanese, presto più ricco dei
Moratti e dei Rizzoli oltre che cavaliere del lavoro come Gianni Agnelli.
Quel pozzo di scienza di Karl Popper, filosofo austriaco, ha insegnato che avere la tv in casa é come
piazzare una bomba H in ogni famiglia e che per questo chi fa tv deve avere almeno una patente
sempre revocabile. Andando simbolicamente al sodo, Berlusconi strappò Mike Bongiorno alla
elefantiaca Rai con un ingaggio da calciatore di un miliardo all’anno. La bomba H dell’evasione e
della pubblicità era così scoppiata all’alba degli anni ottanta.
Se Berlusconi fosse rimasto “il signor tv” a tempo pieno, un altro Murdoch globale o un nababbo
da rivista “Fortune”; se avesse continuato a fare delle frequenze televisive i suoi petrodollari; se
avesse scalato le classifiche degli uomini “più ricchi” al mondo e riservato l’ottimismo lombardo
del “ghe pensi mi” al fatturato dei palinsesti di massa. Avesse anche comprato le isole Bermude e
la Sardegna in blocco, accumulato 32 ville personali come un sultano dell’Oman o distribuito agli
amici diecimila penne biro d’oro come fece uno sceicco, non staremmo qui a discutere da 16 anni di
tv. E lo stesso ministro Gasparri si sarebbe risparmiato adesso la fatica di mimetizzare il conflitto di
interessi del presidente del Consiglio sotto una cappa di digitale terrestre.
Non c’é scampo. Finché il Berlusconi politico, che soprintende alla Rai, sarà lo stesso imprenditore
Berlusconi proprietario di Mediaset, non ci sarà legge televisiva che tenga. Ogni norma, anche la
meglio intenzionata, nascerebbe viziata alla radice confondendo consumatori ed elettori, consenso e
pubblicità, consigli per gli acquisti e propaganda.
Un dato risulta incontestabile. Poiché i giornali vivono del 55% di pubblicità e del 45% di edicola,
la folla di spot troppo concentrata in tv perseguita i telespettatori e, soprattutto, mina l’autonomia
della carta stampata. Ma forse é proprio questo che si vorrebbe: un popolo pubblicitario con mille
canali e un popolo di lettori sempre più sfavorito.
Diceva un intellettuale francese che la tradizione è un insieme di scritti e di idee. Impoverite i
giornali e impoverirete la tradizione.
Lo aggiungo da lettore, non da giornalista.