2003 gennaio 26 Agnelli

2003 gennaio 26 – Agnelli

E’ la morte più paradossale del secolo, questo sì, come dimostra la rappresentazione della sua
scomparsa. Mezz’ora dopo la notizia, i telegiornali in edizione straordinaria raccontano dalla A alla
Z la “vita di successo” di Gianni Agnelli e, in parallelo, la “grande crisi della Fiat”, il raro carisma
personale e il suo precipitoso crepuscolo industriale, il prestigio dell’Avvocato nel mondo e la
decadenza internazionale del suo marchio di fabbrica. Il massimo e il minimo, la luna che splende e
il suo lato oscuro.
Ma i due momenti, del leader indiscusso e della sua azienda discussa, diventano di colpo due entità
del tutto a sé, praticamente separate l’una dall’altra nell’immaginario collettivo. Attraverso i mezzi
di informazione, il “personaggio” Agnelli finisce così per spiegare gli storici successi della Fiat
mentre si manifesta quasi marginale se non estraneo rispetto al declino dell’impresa negli ultimi
anni.
Una rimozione emotiva pressoché generale, che rivela la difficoltà di raccontare oggi un uomo
vincente accanto alla parabola perdente della sua ragione sociale. Nelle interviste agli stessi operai
della Fiat, domina non a caso la percezione netta che l’Avvocato sia “insostituibile” e che il settore
auto della Fiat perda con lui il suo unico santo protettore.
Sia ai cancelli della fabbrica che nei telegiornali, il “re”di Mirafiori risulta un simbolo non soltanto
scorporato dalla crisi della Fiat ma vissuto post mortem come perdita della speranza di uscirne.
L’Avvocato non avrebbe potuto ricevere un elogio funebre migliore di quello dei suoi dipendenti,
agli occhi dei quali resta semmai il re che ha regnato sulla lunga espansione della Fiat ma non che
ha governato la sua ritrutturazione finale.
L’epilogo mediatico è una specie di Viva Agnelli e di Abbasso la Fiat che, se attesta la personalità
dell’Avvocato, aiuta meno a capire come abbia funzionato il potere alla Fiat nella sua ultima
drammatica congiuntura. Forse sarebbe più utile immaginare piuttosto che la vetta del nostro
capitalismo (“Una specie di Fujiyama del capitalismo italiano”, lo aveva definito l’ex ministro
socialista De Michelis), sia stato fino in fondo ben dentro tutta la storia di Mirafiori.
La storia tutta, nel bene e nel male come si dice in questi casi. Con garbo, lo avrebbe preteso anche
Gianni Agnelli se avesse potuto dettare i suoi infiniti necrologi.
Lui è stato il monumento al play boy ma anche l’uomo al quale nel 1993 un pio politico come
Scalfaro chiese inutilmente di fare il presidente del Consiglio. E’ l’uomo che faceva tendenza per
l’orologio sopra il polsino, ma che rappresentava all’estero la voce più autorevole d’Italia.
Amava le folle degli stadi e dei circuiti, eppure portava addosso una invisibile aristocrazia della
distanza. Conciliava l’arte di Platini con quella di Picasso, l’ideologia dell’Italia su gomma con la
mobilità culturale di Palazzo Grassi sul Canal Grande.
Era il solo ultra capitalista che piaceva alla Cgil. Ha scritto ieri Luigi Pintor, storica firma del
quotidiano comunista il Manifesto:” E’ stato il simbolo di una storia, un simbolo ‘signorile’ che i
successori faranno magari rimpiangere.”
Alla guida di una famiglia di 150 membri, ha reso multinazionale il business familiare. Trovasse
capitali a New York o cedesse quote a Gheddafi, cercasse la salvezza nella General Motors o nei
fondi illimitati dello Stato, la Fiat sembra tuttora quotata in famiglia più che in Borsa.
Ma, per ulteriore paradosso, questa iperbole di capitalismo familiare piaceva poco o niente ai
milioni di capitalisti italiani allo stato nascente. Basti l’esempio della costellazione delle imprese
familiari del Nordest: rispettano Agnelli, non amano la Fiat nonostante l’indotto di ricerca.
La Fiat è stata troppo pubblica (nelle crisi) e, insieme, troppo privata (nei boom) per fare cultura
diffusa. Con Benito Mussolini riuscì nel 1930 a cacciare la Ford dal mercato italiano; con Bettino
Craxi e con Romano Prodi impedì nel 1986 che la stessa Ford acquistasse l’Alfa Romeo.
Gianni Agnelli si ispirava ai liberal americani, ma la Fiat è stata per decenni un tutt’uno con il
potere politico assistito. Se non proprio uno stato nello Stato, il vero occulto ministero
dell’economia italiana.

Le biografie dell’Avvocato sono uno straordinario romanzo familiare. La biografia della Fiat è
anche la biografia dell’Italia.
Chissà se tanto potere rende felici. Non so rispondere. Il potere logora chi non ce l’ha, come precisa
il senatore Andreotti, ma non risparmia nulla nemmeno a chi ne gode. Non mi stupirei affatto se ,
alla fine, perfino Gianni Agnelli avesse avvertito 81 anni di solitudine.
E poi la sua vita è stata il prototipo dell’esagerazione. La vita gaudente e portentosa attraversata da
buchi neri.
Invidiato per definizione, l’Avvocato è stato a volte compianto come un uomo qualunque alle prese
con il dolore più intimo. Aveva in mente due eredi al trono della Fiat, e li perse entrambi, il figlio e
il nipote prediletto, il cui destino fu inversamente proporzionale alle aspettative.
Lui, uomo curioso a detta di tutti, ha lasciato la scena senza nemmeno intravedere il destino della
Fiat. E’ il suo ultimo paradosso.
Ha detto ieri al “Sole 24 Ore” il famoso banchiere americano David Rockfeller: ”Gianni Agnelli era
il modello di quello che dovrebbe essere un uomo di successo.” Il successo non gli ha garantito una
morte felice.