2003 gennaio 5 Quale federalismo
2003 gennaio 5 – Quale federalismo. Vent’anni di riforme ma senza convinzione
Se un ventenne chiedesse a bruciapelo da quanto tempo si discute in Italia di riforme urgenti, una sola
sarebbe la risposta giusta da dargli: «Esattamente da quando sei nato tu», vent’anni fa appunto, dal
passato remoto di Spadolini, Craxi, De Mita. Sulla carta, nessuno al mondo è più riformista degli
italiani; nessuno ha riflettuto più di noi sulle istituzioni; nessuno ha sfornato tante proposte come le
nostre «Commissioni bicamerali per le riforme», autentici Titanic di interi ceti politici. Non ricordo chi
abbia detto che per le riforme cercavamo padri fondatori e abbiamo trovato solo padri sfondatori.
Proprio così, ma adesso ho l’impressione che stia capitando qualcosa di nuovo e che il 2003 non sarà
un anno come tanti altri dell’impotente ventennale. Dal 14 al 22 gennaio, tanto per precisare, parte alle
Camere la maratona delle riforme costituzionali. Il merito è di due mine, che sinistra e destra chiamano
per comodità riforme. In realtà sono ancora allo stato di mine che il Parlamento sa di aver posato e
dove, anche se non sa bene come utilizzarle: se l’una contro l’altra o disinnescando gli effetti
indesiderati di entrambe. La prima mina è la riformetta cosiddetta federale dell’ultimo centrosinistra; la
seconda è la riformetta della devolution di centrodestra. La prima deve essere attuata e armonizzata; la
seconda è attesa da almeno un altro anno di tragitto parlamentare. Adesso come adesso, è praticamente
come non se esistessero. Sono scollegate tra loro, l’una sorda e muta rispetto all’altra, ciascuna pensata
secondo la famigerata tecnica dell’«ognuno si faccia la propria riformetta». Non bastasse,
funzionerebbero in ogni caso come cani sciolti senza collare istituzionale, senza una delle due Camere
tutta per loro. Tolgono poteri al condominio romano e li intestano agli enti locali ma senza mostrare ai
cittadini quale sarà la faccia del nuovo Stato e, soprattutto, senza spiegare per filo e per segno perché la
sospirata riforma sarà un affare collettivo e non un lusso da professori. Poi ci si stupisce se la gente è
scettica e scoglionata o se dichiara di non capirci un tubo. Mancando uno scatto di concretezza da parte
del ceto politico, l’opinione pubblica bada giustamente ad altro. Le due mine hanno però il pregio di
ingombrare il terreno. Non si può più fingere che non esistano; ci sono e sono forse riuscite a scatenare
una reazione a catena. Un giornalista come Alfredo Pieroni, che conosce benissimo l’Inghilterra, ha
segnalato una illuminante differenza di linguaggio tra gli inglesi e noi italiani. Un politico inglese non
direbbe mai «sono stato ministro» oppure «ho fatto il ministro nel governo tal dei tali»; dice invece «ho
servito nel governo X o Y». L’uomo di Stato è di servizio; servire dovrebbe essere il suo unico
mestiere, «ho servito». È banalmente tutto ciò che ci vuole in questo preciso momento in Italia per
passare dal riformismo a scampoli alle riforme con capo e coda, adottate esclusivamente per rendere
più pratica e meno costosa la vita del cittadino in carne e ossa. È solo lui – il cittadino – la vera
istituzione privata di riferimento per ogni sana istituzione pubblica. O no? Apprezzo fino in fondo lo
spirito del presidente Ciampi quando abbina il «federalismo solidale» all’«unità nazionale» ma, a mio
avviso, ogni fraintendimento in proposito è oramai impossibile. Da Hamilton a Cattaneo, il federalismo
o si realizza nell’unità oppure sarebbe un’altra cosa ma non certamente federalismo. L’esempio
americano è spettacoloso. Enormi poteri agli Stati federati nel massimo dell’unione federale, nazionale,
presidenziale e patriottica. La bandiera degli Stati Uniti è una storica didascalia al federalismo-unità.
Una stella per ciascuno Stato con i colori della stessa identità nazionale. Il rispetto statuale per la
bandiera «United States» è tale che ogni suo esemplare esposto pubblicamente, in America o all’estero,
in un consolato o in ufficio pubblico, deve essere distrutto non appena ritirato. Essendo un simbolo
deve cessare anche materialmente come tale, né commerciale né riciclabile né disponibile. La via
italiana al federalismo non mette minimamente in pericolo né lo spirito né la lettera dell’unità
nazionale. Semmai il contrario: si cambia lo Stato per ricuperarne il «senso», oggi sotto i tacchi. I rischi
giacciono tutti in archivio. Dal separatismo siciliano degli anni cinquanta al secessionismo padano
degli anni novanta, si trattò in ogni caso di una storia nata morta. Il tema del giorno non è l’unità
d’Italia, ma la qualità dell’unità nazionale. Cioè con quanto federalismo dal basso si intende migliorare
il Paese, con un governo quanto rafforzato al centro, con quale dose di sangue nuovo immesso in
Parlamento e nella Corte costituzionale. Insomma un impianto da Paese europeo a cinque stelle, non
questa baracca riformista. Un po’ deve essere come con l’economia. Dice l’industriale Mario Carraro
che quest’anno ci sarà o vera ripresa o recessione vera e propria; un terzo sbocco sarebbe impossibile
perché, a suo dire, non si è mai vista un’economia che stagni così a lungo. Immagino che valga anche
per le riforme. O si va avanti o si rotola all’indietro.
5 gennaio 2003