2004 agosto 8 Federalisti a parole, centralisti nei fatti
2004 agosto 8 – Federalisti a parole centralisti nei fatti
La grande tradizione comica dell’Italia sta trasformando in una barzelletta anche il cosiddetto
federalismo. Dico cosiddetto perché da noi il federalismo non ha mai messo piede avendo sempre
perso. Nell’Ottocento vinse il centralismo dei Savoia; nell’ultimo dopoguerra prese forma tardissimo
e male l’attuale Stato regionale che, secondo il giurista Piero Calamandrei, doveva diventare un
“audace nuovo tipo di Stato” e che purtroppo è quello che è. Dal 2000 va poi di moda il federalismo
come saldo di fine stagione, cioè una marmellata di decentramento del centrosinistra e, forse, di
devoluzione del centrodestra tra loro scoordinati, anzi l’uno contro l’altro armati. Una vera pacchia
per la Corte Costituzionale che avrà lavoro assicurato per almeno una decina d’anni su che cosa spetti
in meno allo Stato e in più alle autonomie locali. I cittadini che ci capiscono qualcosa, meriterebbero
una medaglia al valor politico. La scena nazionale è questa. Ogni giorno gli enti locali pretendono
con forza gesti {federalisti} autonomi ma il centro conservatore presenta proprio il {federalismo}
come un danno collettivo, una spesa a fondo perduto o addirittura la fantasiosa fine della Patria.
Da una parte l’Italia invoca cioè riforme che facciano funzionare meglio lo Stato più frenante
d’Europa; dall’altra teme anche il minimo spostamento del baricentro verso il territorio.
A leggere le gustose cronache di questo federalismo in offerta speciale sembrerebbe di vivere negli
Stati Uniti, con la Toscana padrona di sé come il Montana o la California e Genova autonoma quanto
il distretto di Washington o la municipalità di Chicago. Invece è soltanto l’effetto ottico del pasticcio
federalista.
La Toscana ha inserito nel suo statuto regionale il riconoscimento delle coppie di fatto; Genova
intende riconoscere il voto comunale ai suoi immigrati regolarmente residenti da cinque anni.
Qui non m’importa entrare nel merito delle due scelte. Ma è impossibile non notare che, di fronte
all’alt e al ricorso alla Corte Costituzionale da parte del governo, sia a Firenze che a Genova hanno
reagito con lo stesso ironico interrogativo: {E questo sarebbe il federalismo?}.
A volte la parole sono pietre. Nonostante il federalismo risulti tuttora assente sia dalla Costituzione
sia dalla cultura istituzionale, il linguaggio delle autonomie lo parla già benissimo e vi ricorre per
spiegarsi meglio, fregandosene del binario morto destra/sinistra.
Ne fa uso trasversalmente, come si dice, anche perché è una bella lotta stabilire se siano più
sbrindellati i supposti {moderati} al governo o i presunti {riformisti} all’opposizione.
La parola rilanciata una quindicina di anni fa dal costituzionalista Gianfranco Miglio e dal vate
padano Umberto Bossi ha superato il recinto della politica e la stessa strettoia della devoluzione ora
sul tappeto. {Federalismo} è diventato dal basso gergo dei comuni, delle province e delle regioni.
Verissimo, certe autonomie hanno dato uno spettacolo vergognoso riducendosi a fabbriche di lucrose
carriere e di elemosine elettorali. La Sicilia, tanto per scegliere una fonte inesauribile, incassa dal
condono la metà di ciò che spende in personale assunto apposta per valutare le domande di condono
Sembrerebbe un gioco per distrarsi a Ferragosto.
Eppure è sconsigliabile cadere in questa trappola. I tre milioni di miliardi di lire di debito pubblico
non li ha fatti il federalismo. E la bituminosa burocrazia dei timbri non rovina soltanto il Nord ma
altrettanto il Sud. La burocrazia, come dimostra il direttore generale dell’associazione delle banche
italiane, penalizza tutti: per chiudere una pratica di fallimento ci vogliono 6 anni al nord ma
10 al sud.
Il macchinone statale produce poco e contro. Siamo ad esempio presenti all’estero con una foresta di
soggetti per l’export che Luca di Montezemolo, pur frigido con il federalismo, ha descritto così:
{Troppe sigle, che operano con sprechi, inefficienze e sovrapposizioni}.
L’Isae (Istituto studi e analisi economiche) ha calcolato che una devoluzione in modica quantità
costerebbe circa 2 miliardi di euro.
Devoluzione o non-devoluzione che fosse alla fine del labirinto, se anche un investimento da 2
miliardi sembrasse troppo costoso per ristrutturare pezzi di Stato allora teniamoci contenti e beati
questa Italia così come sta. Ce la meritiamo.
Il federalismo è un’altra cosa. Per realizzarlo come Dio comanda, ci sarebbe bisogno di azzerare sia il
frettoloso non-federalismo dell’ultimo centrosinistra sia la stremata mezza devoluzione di questo
centrodestra ripartendo, come nel 1948, da un nuovo serio patto costituente. I mezzi federalismi di
parte non cambieranno l’Italia ma alle partitocrazie vecchie o bipolari, direbbe don Luigi Sturzo,
interessa poco il futuro. L’oggi è tutto, anzi è già ieri.