2004 febbraio 25 Venice marathon

2004 febbraio 25 – Venice Marathon

Prendi un nome attico di 2500 anni fa: Maratona. Aggiungi un luogo senza tempo:Venezia. Traduci
entrambi nella lingua priva di confini: Venice Marathon. E’ fatta, un cocktail speciale, una cosa a
sé, non servirebbe altro.
Un professore di un’università americana ha raccontato che dopo venti minuti di corsa sentiva
ricongiungersi il corpo e la mente. Per simpatia ambientale, a Venezia il ricongiungimento
dovrebbe funzionare meglio che altrove.
Venezia aiuta sempre a immaginare, a pensare, a specchiare perfino muscoli e fatiche nei propri
pensieri. Il bello è che uno studioso del quale si è giustamente perso il nome sosteneva che l’unico
sport salutare per l’uomo era il nuoto, perché solo il nuoto impediva di sudare!
A suo dire, anche la più piccola goccia di sudore conteneva cellule sanguigne che, dunque, era
nocivo espellere. Secondo l’ eccentrica teoria proprio la corsa sarebbe stata il peggio del peggio,
figuriamoci una maratona con i suoi chili di sudore lasciati per strada.
Scemenze. Ha ragione invece quel premio Nobel per la fisiologia che considera la corsa una specie
di creativo allenamento del cervello.
Anche se si corre in 6300 iscritti al colpo è come se ciascuno corresse in solitudine, ma la solitudine
della corsa non ti lascia mai solo. Da Stra a Venezia, dall’asfalto alle pietre, dalla villa labirintica
alla città unica, si ripeterà lo stesso miracolo motorio: la solitudine di massa.
Alle Olimpiadi, il mio idolo della corsa era un poliziotto finlandese, dalla falcata senza difetti, che
dava stile anche allo sforzo più inumano. Lasse Viren era il suo nome, dominava i 5000 e i 10000,
ma fallì la maratona.
Ho poi visto uno stesso atleta vincere due maratone olimpiche consecutive, exploit questo di
prodigiosa grandezza, senza conservarne però memoria né ammirazione. Mi capitò a Montreal e a
Mosca con Waldemar Cierpinski, piccolo sconosciuto Filippide della Germania comunista con un
curriculum di ex siepista.
Con i tedeschi orientali allora selezionati dalla nibelungica scuola di Lipsia, non si sapeva mai se
applaudire il campione o se sospettare il laboratorio. Magari facendo torto anche a qualche
innocente atleta senza chimica, l’ombra del doping allungava a priori ombre e penombre che il
tempo avrebbe dimostrato più che legittime. Con il Muro di Berlino, crollò anche l’omertà di
provetta.
Chissà, forse il buon Cierpinski era genuino come un pomo di Merano. Forse aveva dentro di tutto.
Chissà, fatto sta che quei suoi exploit così inaspettati mi rubarono un po’ del mio religioso rispetto
per la Maratona maiuscola, eredità greca, specialità classica quanto i versi del poeta Pindaro.
Se ben ricordo, la maratona di Venezia è stata progettata una ventina di anni fa guardando da vicino
quella di New York. Piero Rosa Salva andava, tornava e sognava, e oggi il vecchio sogno è già una
tradizione che conta 17 edizioni. A me pare ieri, ma dev’essere colpa della terza età che
teneramente mi fa compagnia.
Il trapianto è felicemente riuscito, secondo vocazione cosmopolita. Nella Venezia dei 12 milioni di
turisti, è straniero un quarto degli iscritti alla sua maratona. E trovo molto bello che, tra gli stranieri,
siano ben 240 gli statunitensi.
Con quel che è capitato l’anno scorso a New York, la maratona di Venezia aveva bisogno di
rappresentare anche fisicamente questa sua prima ascendenza americana. E’ vero che l’essenzialità
della corsa fa a pugni con la retorica di circostanza, ma questi che stiamo vivendo sono davvero
tempi in cui tutto si tiene, ad alta carica simbolica, in mezzo a cento paure e a mille precauzioni.
Ignoro quali siano i favoriti. Provo a indovinare piuttosto lo spirito dei seimila, di questo branco di
gente positiva che porterà la modernità sportiva nel cuore antico e stabile di Venezia .
Non si corre una maratona per scherzo, mai. Ogni maratona vale mesi, anni di preparazione. Si
corre con a fianco il mito, in fondo.

E’ un impegno serio con se stessi; si nutre di disciplina, esercita la concentrazione, il piacere e la
sofferenza, il resistere e persino la nobiltà del cedere. Il suo è un grande agonismo interiore, che
sfida, misura e compete anche quando l’anima del concorrente è dilettante fino all’osso.
Una volta a Monaco di Baviera ho visto decine di maratoneti olimpici schiantarsi sugli ultimi metri,
svuotati di ogni energia ma terribilmente fieri dei loro piazzamenti destinati all’oblio. Qualunque
maratona, anche dell’ultimo classificato, è una fatica che sa sempre conquistarsi qualcosa.
Se penso alle maratone che ho raccontato ai lettori e/o televisto da spettatore qualunque, rivedo
bipedi che si fanno titani. Alla sua Maratona, Venezia faccia ponti d’oro e stenda tappeti di pietra.