2004 febbraio 6 Non eravamo albanesi
2004 febbraio 6 – Non eravamo albanesi
Un giorno chiamo Gian Antonio Stella per fargli i complimenti dopo aver letto il suo ultimo libro:
L’orda, quando gli albanesi eravamo noi. Non era la prima volta che da scrittore si dimostrava bravo
come da giornalista. Basti ricordare le pagine di Schei, il viaggio nel profondo Nordest del benessere e
del malcontento. Oppure Lo spreco, dedicato all’Italia che butta via montagne di miliardi come se non
li dovessero poi pagare di tasca loro i cittadini: «Lo sapevate – chiedeva Stella nel presentare il libro
strapieno di dati – che i deputati siciliani hanno diritto a un contributo vacanze per tutta la famiglia,
compreso il suocero?». Mille nefandezze così, da sud a nord. Nel complimentarmi con lui per L’orda,
gli confesso per anche una mia personalissima obiezione di fondo: «Caro Gian – gli dico al telefonino –
, usando tutti documenti rigorosamente veri hai scritto in realtà un libro falso». Stella è troppo ironico
per scomporsi ma, con una risatina che sento anche se non vedo, si dichiara sorpreso della mia chiave
di lettura: «Ma non è possibile», mi brontola con la solita amicizia. Invece era possibile, tanto è vero
che non ho cambiato opinione in proposito. Naturalmente, per «falso» non intendevo «bugiardo» e
meno che meno truffaldino nei contenuti. Trovavo fuorviante, questo sì, il parallelismo sempre
sottotraccia tra luoghi, situazioni, tempi, gente, paesi, tradizioni, avventure umane e materiali popolari
mai paralleli.
Ha poco senso fare di ogni erba un fascio, anche se le diversità sono il sale della terra. Il fatto che il
mondo sia una storia di migrazioni non significa affatto che le storie siano tutte supergiù uguali;
banalmente si può spesso riscontrare che non sono nemmeno parenti alla lunga. Noi non eravamo gli
albanesi di ieri mentre gli albanesi di oggi, nell’attraversare l’Adriatico, non sono ad esempio i cinesi
che affrontavano il Pacifico, né i cinesi ricordano i portoricani. A mio parere quando gli albanesi
eravamo noi è in parole povere una stagione mai esistita, tirata per i capelli della storia, che mette
assieme esperienze tutt’altro che assimilabili. Fuori tempo massimo per riuscire a ricavarne una morale
comune sull’emigrazione di massa. Restando alla brillante ma inutilizzabile metafora sugli albanesi,
forse riesco a spiegarmi meglio con una differenza presa dalle cronache dei poveri di oggi e di ieri. È
stato detto, scritto, osservato dai sociologi e avallato dai politici che a guardar bene fu Domenica in ad
accendere la speranza degli albanesi verso le nostre sponde. La televisione mostrava un’Italia
spensierata, benestante, ottimista e canterina, di giochi, lustrini, chiacchiere da salotto e personaggi di
un interminabile show. L’Albania aveva a vista, a portata di mano e a due passi di gommone la sua
«Merica Merica» italiana; bastava spegnere il televisore e partire a occhi chiusi, costasse anche la vita,
in quel braccio di mare agitato dal vento e da Mara Venier. Altro che televisione. Gli italiani di un
lungo secolo di emigrazione spesso non sapevano neanche dove andavano a finire, come si può
verificare nelle indimenticabili lettere pubblicate dal professor Emilio Franzina. Un altro studioso fa i
confronti tra contadini tedeschi, svedesi e italiani dimostrando che soltanto i nostri emigranti erano del
tutto privi della percezione della distanza dell’America. Era spesso un viaggio verso l’ignoto più
ignoto. Andavano in Brasile convinti di diventare piccoli proprietari terrieri e si ritrovano a cielo
aperto, spogliati di tutto, con le caviglie divorate dai vermi – i bissi per i veneti – e gli impiegati delle
poste che rubavano loro anche i francobolli delle lettere, la sola comunicazione possibile con il mondo
perduto. Il francobollo era il loro canale satellitare, il cellulare e il telefono fisso, nient’altro che un
francobollo. Nel solo quinquennio 1891-1895 emigrarono verso le Americhe 154.705 veneti. In tre
ondate fra il 1876 e il 1950 l’Argentina accolse tre milioni di italiani, cioè una popolazione quasi pari a
quella dell’Albania di oggi o a metà della israeliana. Non è una storia, ma un’epopea. Dentro ci può
stare di tutto, ma è tutta nostra, a cominciare dal Veneto, dal Friuli, dal Trentino. La prossima settimana
a Feltre inaugureranno il monumento all’Emigrante: il Veneto che cambia, il «Veneto transformer» di
Franzina, ricorda come fosse memoria di giornata. Prima emigrò per cercare il pane e, dopo la seconda
guerra mondiale, continuò a emigrare «non più per un pane ma per un lavoro migliore», come
testimonia Mario Fazio, a quei tempi inviato speciale della «Stampa» di Torino. C’è un altro Veneto
all’estero, una regione al quadrato, e questo Veneto trapiantato ma non straniero non mi pare passato
alla storia come un’orda. Per questo capisco Giuseppe Covre, ex sindaco di Oderzo, se da veneto e con
il garbo riconosciutogli dallo stesso Gian Antonio Stella si identifica non nelle asprezze
dell’emigrazione veneta ma nel suo portentoso spessore umano. Non è una polemica questa; piuttosto,
una nobile discussione nemmeno sfiorata alla lontana da intolleranze e, meno che meno, da razzismi
striscianti. L’Italia è ovunque piena di portenti e, quanto a me, sono felice del mio: il Veneto di ieri e di
oggi. Se fosse stata un’orda, o se lo fosse, resterei pur sempre nella mia. Ma non lo fu e non lo è, caro
Gian Antonio.
6 febbraio 2004