2004 maggio 9 10 anni dalla morte di Senna
2004 maggio 9 – 10 anni dalla morte di Senna
Dieci anni dalla morte sono tanti. Ma, a volte, sono niente. Non rivivono; vivono.
Mai dimenticherò il lento reclinare del capo. Come di un passero abbattuto sull’asfalto.
Lì avevamo capito. A casa nostra abbiamo spento il televisore e per un anno buono non lo
abbiamo più riacceso sulla Formula uno.
La Formula non aveva più il suo “uno”, Ayrton Senna da Silva. Ai box sarebbe mancato, oltre
che un asso, il prototipo del mestiere di correre normalmente al limite.
Ricordo quell’istante vissuto assieme ai miei figli in diretta. Francesco, Paolo ed io avevamo
gusti, simpatie e tifo diversi l’uno dall’altro, con una sola totale unanimità: Senna.
Senna, e gli altri. Senna, e il resto. Tanti grandi, lui di più. Tanti campioni, lui extra.
La macchina, le gomme, il telaio, gli alettoni, la squadra, ma lui di più. Il pilota che fa cantare il
motore, e se non ci fossero stati al volante i Nuvolari, i Fangio, i Senna, mai lo sport del volante
estremo sarebbe diventato via via leggenda.“Ogni epoca ha il suo eroe”, ha riflettuto Michael
Schumacher in Australia, alla partenza della stagione 2004.
Non era soltanto questione di bravura. Il fatto é che morto Senna non se ne fa più un altro. Si fa
uno Schumacher, tanto bravo da superare anche i record di Fangio; non si fa un altro Senna, la
cui solitudine agonistica persiste intatta, come nel romanzo di Eloisa e Abelardo:”Ero entrato
per sempre nella mia solitudine.” Quel tipo di pilota in quel tipo d’uomo resta come sospeso nel
tempo, un indecifrabile a sé esistenziale, incapace di andare in archivio quasi che la curva del
Tamburello di Imola avesse funzionato da fermo-immagine a tempo indeterminato.
Senza pretese di verità, credo di aver capito che cosa Senna abbia portato di personale nella
Formula 1. Al suo fianco correva il Brasile, che non é solo un paese sudamericano, é anche una
saudade, parola intraducibile in italiano che coagula in tre sillabe di portoghese la nostalgia del
vivere mentre vivi, una cadenza di bossa nova, un passo lieve su questa terra, uno smarrimento
da orizzonte, il perenne “tornando a casa” della memoria,un navigare nei propri pensieri senza
approdo. L’”alegria” dei brasiliani é una malinconia felice.
Non un samba da cartolina turistica di Rio. No, qualcosa di gelosamente intimo, in penombra. Il
samba dentro, che ride triste nel sorriso di Senna e che si lascia indossare su pelle come la T-
shirt di ragazzino.
Il suo sguardo era un eterno pit-stop. Rallenta, frena, rifà il pieno e vai, accelera oltre i 300
all’ora e prova a superare tutti e tutto. Da brasiliano faceva in fondo il mestiere più antico,
vivere come se tutto fosse a noi noto ma come se, ad ogni millesimo di secondo, ci aspettasse al
varco l’ignoto.
Sì, lo so benissimo che basta un brufolo di cordolo o, invece, il polso fermo di un meccanico a
rovinare oppure a sublimare un Gran Premio. Un giorno, guidato da Luca Cordero di
Montezemolo, ho visto a Maranello che cosa vuol dire far nascere una Ferrari e costruire
macchine come queste: in pratica l’ottavo giorno tecnologico della Creazione del mondo , un
merletto di Burano ricamato con il metallo fuso del motore.
E’ tutto verissimo. Ma é sempre il pilota che dà l’impronta digitale, che alla macchina presta il
suo volto, il suo meglio, la competenza e l’ambizione, il suo tutto in un dito della mano da
schiacciare sul pulsante giusto. Anche il destino, gli errori, le sue burrasche, la vita, le rabbie, il
dominio e la delusione, l’alloro e il muretto. Soltanto una grande promessa come Fernando
Alonso Diaz, 22 anni, può arrischiare di dire alla Gazzetta: “ Mi manca solo la macchina”: la
giovinezza é tutta in quel “solo”.
Senna portò ai box della velocità una metafora in carne ed ossa. La corsa in sé. La corsa che
mette il traguardo ad ogni chilometro e ad ogni curva; un vento interiore che nemmeno i
computer di ultimissima generazione riuscirebbero a captare e a memorizzare.
Si sentiva sibilare lo stesso vento anche in Gilles Villeneuve. Ma lui portava con sé i boschi a
perdifiato del Canada; Senna una musica di fondo.
Quel primo maggio 1994 di Imola, dopo aver spento il televisore in salotto, andai nel mio
studio e ascoltai “Flor da Bahia” di Sergio Mendes, in particolare la pavana di Maurice Ravel
per la principessa morta, che Eumir Deodato ha arrangiato come una carezza di Copacabana
sullo spartito.
Se Ayrton se ne era andato, il suo sguardo no. Non ho mai visto in vita mia un pilota così nato
per vincere e così carico di presagi, di circuiti e di ombre.
Si può stimare un pilota, o amarlo. Senna ha saputo fare la seconda differenza, che dura ancora.
Sono passati dieci anni e sembra ieri, inseguito dai ricordi che gli generano attorno nuovi miti,
simboli, icone, siti, miliardi di contatti informatici, un inesauribile popolo di ammiratori del
pilota che non c’é. La popolarità se ne infischia della morte e la beffa.
Perché?
Il testamento di Senna sta in un’intervista, quando diceva:” Mi ritirerò dalle corse il giorno in
cui scoprirò di essere un decimo di secondo più lento delle mie possibilità.” Gli risultava
impossibile fare qualcosa di meno del suo possibile.
Era pilota “dentro”, fino all’ultimo decimo di secondo. Aveva “dentro” anche il carattere di Sao
Paulo, la città del caffè, dell’architettura, degli emigrati italiani a milioni e del Brasile più
innovativo. Era vincente senza l’arroganza del vincere. Lo era per vocazione, per grazia tecnica
ricevuta. Rischiava e calcolava, sembrava ora il campione di karting degli esordi ora un
ingegnere capace di captare ogni minimale vibrazione del motore. Più che guidare una
monoposto, guidava sé stesso.
La pole position era la sua istintiva identità. Partire primo per coerenza; dirsi primo con il
cronometro in parallelo alle ambizioni. Ha fatto pole 65 volte su 161 gran premi: voleva il
record cominciando dalla linea di partenza. Senna viveva per partire.
Era stato il “fenomeno” prima di Ronaldo, il “migliore” prima di Schumacher. I ragazzini lo
capivano al volo perché lo sentivano allo stesso momento pieno di futuro e fragile quanto loro.
Un famosissimo premio Nobel per la medicina, Konrad Lorenz, ha indicato