2004 ottobre 4 Scheva
2004 ottobre 4 – Shevchenko
L’unica cosa illeggibile e impronunciabile di Andriy Shevchenko detto amorevolmente Sheva è il
paese dove è nato, Dvirkivshchyna, un cruciverba. Per tutto il resto è abbastanza raro trovare un
goleador apparentemente normale come l’ucraino, corazzato ai fianchi ma dalla potenza ben
distribuita dalla testa ai piedi, predestinato all’affondo in area e istruito alla perfezione da un grande
maestro di football a Kiev.
La sua Ucraina non se la passa economicamente bene, con quasi il trenta per cento della
popolazione ampiamente sotto la soglia della povertà. Di collegamento tra l’ex-Unione Sovietica e
l’Europa , è un paese dove si parla ucraino, russo, romeno, turco-tataro, ungherese, polacco,
bulgaro, tedesco, sloveno, bielorusso, greco, come dire un bazar linguistico, un incrocio di venti
continentali, luogo di confine che finisce per mescolare anche i talenti del calcio.
A 28 anni, basta guardarlo nelle occhiate tattiche e nelle movenze palla al piede, Scheva dimostra
sul campo classe europea e temperamento ucraino, mette insieme una tecnica essenziale, la scuola
dell’Est e la rivincita di gente che conosce il prezzo del pane. A volte chi non conta più i miliardi
guadagnati onestamente, sa custodire meglio le radici spartane.
Lui confessa una filosofia da bravo ragazzo:”Se uno è sereno nella vita di tutti i giorni, lo è anche in
campo.” Soltanto Inzaghi lo supera in libidine del gol, solo che in questo momento Shevchenko è
nel Milan suppergiù l’equivalente di Adriano per l’Inter, cioè mette in crisi tutta una serie di luoghi
comuni nei quali siamo specialisti noi giornalisti.
Il Milan delle iperboli, del gioco rinascimentale, della classifica record, dello scudetto da cineteca e
del perenne sorriso di Silvio Berlusconi si è come eclissato, rintanato in rognosi risultati,
scompaginato anche nei suoi spazi più sicuri tra Maldini e Nesta. Per ora ringhia meno persino con
Gattuso. Ma là davanti, come ieri a San Siro, Sheva vede e provvede, segna come un Van Basten e
fa segnare come un Rivera d’altri tempi.
Qui l’asso sembra fare da solo mentre la squadra impallidisce. Il collettivo si fa quasi da parte per
affidarsi al giocatore taumaturgo, che fa le veci degli schemi fino all’altro ieri celebrati come il
meglio in circolazione in Europa assieme all’inglese Arsenal o Manchester e, nella profonda
provincia italiana del calcio-spettacolo, al Chievo inventato da Del Neri.
L’allenatore Ancelotti ha buoni gusti tecnici, tanto che vorrebbe con sé anche Totti, ma si vede
benissimo che dalla panchina guarda con incredulità a questo ultimo Milan, ancora poco
somigliante a quello di qualche mese. Adesso tiene botta a colpi di Scheva – e via via di Kakà – non
più di geometrie. E’ più pianificata la Juve, oppure il Messina.
La parabola del Milan suggerisce che l’asso prevale a volte sul gioco anche più collaudato. Il
Napoli poté vincere lo scudetto soltanto avendo in squadra Maradona, a riprova che il calcio resta
un gaudioso mistero di talento & schema non sempre in simbiosi. Il Real Madrid ad esempio è tanto
obeso di campioni da soffocare con loro negli spazi sguarniti.
I campioni sono anche una consolazione, per dimenticare i sempre più numerosi simulatori e i
sempre più ignavi arbitri dall’occhio spento. Inutile appellarsi al fair play spontaneo se i giudici in
campo sono i primi ad abrogarlo.