1990 dicembre 31 Il vecchio e il nuovo
1990 dicembre 31 – Il vecchio e il nuovo
L’anno nuovo progetta fra quindici giorni una guerra antica, addirittura arcaica. Una
guerra statica, dove tutto è fermo, appostato, a conoscenza del nemico.
Un territorio assediato come un fortino, e tutti a muoversi dentro e fuori scegliendo i
bersagli e mettendo a punto la mira. Un agguato artigianale, meticoloso, calmo, per
programmare nel minor tempo il maggior numero di morti.
Con i suoi trucchi e i suoi misteri, il deserto aggiunge sostanza biblica all’attesa della
notte che i generali giudicheranno propizia al botto. A raccontare questa arcaica guerra
non saranno né Tucidide né Senofonte, ma nemmeno Erich Maria Remarque o Emilio
Lussu quando la morte fissava negli occhi dalla trincea; e neanche Giulio Bedeschi o
Mario Rigoni Stern che sentirono spegnersi di schianto nel destino dell’uomo-soldato i
miti di potenza di interi corpi d’armata e di grandi spedizioni militari.
Per una strategia che avrebbero potuto preparare anche Nabucodonosor o Serse, tutto
sarà nel Golfo favolosamente elettronico. Le armi e l’informazione, il modo di colpire
e di sapere, un probante collaudo per le prime, uno spettacolo senza precedenti per la
seconda. Il bello della diretta consentirà anche di morire più volte, all’infinito e al
rallentatore, così fermando il tempo e lo spazio.
É sempre Faust il nostro prototipo. Geniali nella tecnologia, siamo ottusi nel genio
della pace. Se soltanto riuscissimo a sviluppare nella cooperazione un millesimo della
fantasia che esercitiamo nell’aggredire; se potessimo capire che l’affare più lucroso è
la pace…
Siamo terribilmente impreparati a tutto. La storia corre più veloce dei popoli che la
fanno, e li coglie sempre più in ritardo. Se il mondo è diventato un immenso
condominio, vi abitiamo con una cultura poco allenata al dialogo. La pace, l’ambiente,
il benessere, e la fame, la guerra, gli squilibri, lo sviluppo, le risorse: con chiarezza
fino all’altro ieri sconosciuta ci rendiamo benissimo conto che nessuno potrà fingere
di non vedere chiudendosi alla spalle l’uscio di casa. Ma la coscienza dei problemi non
basta; non basta anche se rappresenta già un progresso.
Ha qualcosa di epico il nostro tempo miscelato tra disperazione e speranza, tra sfida e
impotenza, tra cinismo e vita. Anche perché il Dio dei cristiani non è più il Dio della
storia; al massimo un Dio interiore, freudiano, sempre più periferico alla società. La
scienza che rende più forti, lascia più soli e vulnerabili.
«Siamo senza festa perché ci compensiamo con tanti divertimenti» ammonisce Padre
Turoldo. É la stagione del disagio, anche in politica, quando con essa s’intende la
possibilità per ciascuno – se non di essere retoricamente protagonisti – almeno di far
giungere la voce.
Oggi la sfiducia nella politica italiana consiste precisamente in questo: pur chiamato
spesso a votare dunque a scegliere, il cittadino ha concluso che di un rito si tratta e di
nulla di più. In una democrazia che paradossalmente lo emargina, gli sembra allora di
poter contare soltanto se opta per la protesta. Rendere cioè la sua emarginazione
talmente estrema da trasformarla in un boomerang contro il Palazzo.
E tuttavia «l’esasperazione non porta consiglio», anzi può sfociare nella demagogia,
nella stupidità, in un ulteriore imbroglio. L’avvertimento viene dal professor Giovanni
Sartori, docente di scienza della politica alla Columbia University, il quale chiama
giustamente in causa anche un’informazione il più delle volte settaria, schierata, di
potere, quindi altrettanto inaffidabile della politica che pur afferma di voler emendare.
«Oggi i media – sostiene Sartori in un’intervista al Corriere della Sera – se facessero il
loro dovere, che non fanno, potrebbero alimentare una pressione alla quale il Palazzo
capisca di dover cedere».
Tra i paesi occidentali, l’Italia è senza dubbio il meno informato. Per tre storiche
ragioni: la nostra democrazia vanta una tradizione incompiuta: uno Stato mai
riformato si porta dietro l’allergia al controllo della pubblica opinione; il giornalismo
non ha abbandonato tutte le stanze dei bottoni economici e politici.
Nessuno può chiamarsi fuori dalla crisi e dal malessere, immaginando che tocchi
sempre agli altri avviare il cambiamento. Questo è un vizio diffuso, tipico di una
società al fondo conservatrice, cui piace molto fare la predica sui diritti e pochissimo
ascoltare il richiamo ai doveri. Assai più spesso di quanto non si voglia confessare, i
vizi della stessa classe politica non sono invece che la proiezione di una società dove
l’intrallazzo, l’illecito, l’usura, il riciclaggio, l’accumulo, la finanza e la complicità del
denaro alimentano la cronaca quotidiana anche delle nostre perbenistiche città e di
insospettabili carriere.
L’anno nuovo non è quello del calendario. Novità sarebbe la pace; novità sarebbe la
responsabilità.