1990 settembre 30 Quasi ci siamo
1990 settembre 30 – Quasi ci siamo
La macchina della pace è in panne, quella militare è pronta…
Gli italiani si preoccupano poco della guerra perché sono «un popolo leggero»;
così la pensava Alberto Moravia. Leggeri o no, Saddam ci impone di tenere
sulle labbra la parola più ripugnante del vocabolario umano: la guerra è alle
porte; la pace nel Golfo sta morendo di giorno in giorno.
Nell’opinione pubblica non si avverte più l’angoscia d’agosto, quando tutto
sembrava caricare il primo colpo e gli esperti di strategia auspicavano, come
Kissinger, una soluzione chirurgica nel giro di poche ore.
L’informazione ha fatto fatica a tenere il titolo alto, perché il dramma
incombente divorava fulmineamente se stesso e altro ne reclamava, 24 ore su
24, come ha insegnato la catena televisiva americana Cnn e come, in faticosa
rincorsa, ha tentato di fare ovunque la comunicazione di massa.
L’usa e getta vale anche per la paura. Riusciamo a stancarci in fretta soprattutto
delle tragedie latenti, come accade con la mafia; non resistiamo alle lungaggini,
nemmeno tragiche; la voglia di scappare dai problemi è molto più forte della
stessa speranza di uscirne. Dal momento in cui abbiamo scoperto che il tempo
del petrolio altro non è che un fiammifero acceso, nulla fa più eccezione,
tantomeno la notizia.
In realtà, la crisi del Golfo ha conosciuto dal 2 agosto ad oggi una continua
accelerazione: a volte plateale, a volte dissimulata, ma sempre orientata alla
guerra. L’Onu, l’Europa, l’Urss, re Hussein di Giordania, il Papa, statisti d’ogni
latitudine: la diplomazia non riesce più a trovare vie che non abbia già
vanamente percorso. Otto risoluzioni dell’Onu hanno autorizzato il primo vero
accerchiamento di un Paese in tempo di pace ma 5.500 ostaggi occidentali
consentono all’Irak un blocco alla rovescia, ricattatorio e spietatamente
difensivo.
A guardar bene, in due mesi nulla ha potuto frenare la preparazione della
guerra. La macchina della pace è in panne; la macchina della guerra si sta
mettendo a punto. «Una decisione su un’azione militare – ha dichiarato ieri il
ministro degli Esteri britannico – richiederà ancora qualche settimana»: se ne
ricava l’aggiornatissima impressione che tutti stiano lavorando soltanto per la
soluzione militare, per una scelta obbligata che a questo punto tiene in
discussione tempi e modi, nient’altro.
Un affare per soli stati maggiori e del resto gli Usa avevano già avvertito che i
loro 150 mila uomini sarebbero stati nelle condizioni di agire nel deserto a metà
ottobre. Quasi ci siamo, senza contare il rischio che un incidente o un colpo
disperato di Saddam bruci i tempi di una resa dei conti che noi immaginiamo
devastante non soltanto in termini militari e umani. In prospettiva, una guerra
nel Golfo avrà conseguenze micidiali tanto all’interno del mondo arabo e
dell’Islam quanto nelle relazioni dell’Occidente con quel mondo umiliato e più
diviso che mai.
Mette i brividi anche un altro aspetto: l’impotenza del «mondo nuovo» per la
prima volta fondato sull’abbraccio Usa-Urss e sull’unanimismo dell’Onu. Quasi
che, nell’affrontare la cosiddette crisi regionali, nemmeno la straordinaria
congiuntura internazionale del dopo 1989 fosse in grado di costruire un ordine
meno precario e insicuro.
I giorni preparano la guerra, che persino i falchi considerano il male minore
soltanto a patto che sia una guerra lampo e si rinunci alla morte chimica. É
questo il sintomo più palese del fallimento della pace: attorno al barile di
petrolio, il mondo attende il botto. Chi potrà fermare la notizia finale?