Massimo Cacciari – La tribuna di Treviso (2006)
Quell’anarchico che sognava un’Italia migliore
di Massimo Cacciari
Ho conosciuto Giorgio Lago quando assunse la direzione del Gazzettino. Il giornale «storico» veneziano era noto per il suo moderatismo un po’ filisteo, per l’ossequio ai partiti (meglio, al partito) di governo e per un tono complessivo provincialmente dimesso. Rimasi così davvero stupefatto quando il suo nuovo direttore mi chiamò per chiedermi una lunga intervista, mi sembra di ricordare sulla crisi del marxismo e sulle valenze politico-organizzative di tale crisi nell’ambito dei movimenti comunisti. Discutemmo a tutto campo per un’intera mattinata. Da allora quante altre volte Giorgio venne a parlare da me e durante i nostri incontri le parti si scambiavano ed ero io ad intervistarlo! Lo conoscevo in precedenza come un «semplice» giornalista sportivo e scoprivo in lui vastissime letture non solo nel campo degli studi politici e sociali, ma in quello storico e filosofico.
La sua curiosità, la sua volontà di ricercare ed approfondire ogni argomento era inesausta. Mai si accontentava della prima risposta; semmai la sua intelligenza si rivolgeva al paradosso. Detestava ogni tranquilla certezza, almeno quanto la difesa burocratica e corporativa delle posizioni raggiunte, dei poteri già conseguiti. Quieta movere: così potrebbe suonare il suo motto. Giorgio Lago era per questo un liberale autentico: liberare dal dogma, dalle posizioni di rendita, da ogni forma di monopolio, attraverso le «armi» della critica e della ironia, fondate sulla conoscenza e sulla analisi dei fatti. Realismo e volontà di cambiamento, di esperimento, di «avventura» anche: queste due dimensioni si combinavano in quella serena inquietudine che a me pare caratterizzasse lo spirito di Giorgio Lago.
Il liberalismo di Giorgio non aveva, dunque, nulla di quel conservatorismo proprio di certe tradizioni europee. Somigliava di più alle tendenze «anarchiche», anti statalistiche di importanti settori della cultura anglosassone ed in particolare statunitense. E questo aspetto della sua cultura emerse con chiarezza, dovrei dire esplose, all’inizio degli anni ’90.
Credo si possa dire che nessun giornalista visse quella «catastrofe» con maggiore intelligenza delle novità, con maggiore passione, con maggiore sforzo nel tentativo di costituire una «nuova Italia» su quelle macerie. Giorgio non si attardò mai alla semplice denuncia, non indusse mai a facili moralismi non si limitò mai a fare l’elenco dei cocci, sport nazionale e noiosamente facilissimo. Egli cercò appassionatamente di cogliere le potenzialità di riforma, i nuovi soggetti culturali che emergevano, le opportunità di coordinarli in un’autentica nuova forma politica.
Il perno di questa ricerca aveva per Giorgio un nome: federalismo. Significava costruire un nuovo ceto politico e dirigente a partire dalla domanda di autonomia e auto-governo delle «comunità originarie», dall’affermarsi di una economia «a rete», fondata sulla vitalità della piccola e media industria più innovativa ed organizzata per distretti. Giorgio compì ogni sforzo per mettere in relazione, a partire dalle pagine del suo giornale, i nuovi esponenti delle realtà politiche e amministrative locali con il nuovo «capitalismo personale» dei distretti. Ma Giorgio comprendeva anche benissimo che questo foedus non poteva limitarsi alla dimensione locale; esso doveva svilupparsi come progetto di riforma costituzionale, come fondamento di un nuovo patto fondamentale, di una nuova Grundnorm.
Furono anni di appassionante dibattito, in cui si determinarono inaspettate «trasversalità» tra sindaci di tradizione culturali e politiche diversissime, tra culture di origine anche opposta, ma che riscoprivano al proprio interno correnti carsiche, recanti in sé queste idee federalistiche. Seguimmo insieme, quotidianamente, il formarsi di questi progetti e di queste speranze. Ci battemmo insieme perché le forze politiche democratiche accogliessero la sfida per l’elezione di una Assemblea costituente. Giorgio Lago fu la vera anima anche delle Assemblee dei sindaci e poi del Movimento del Nordest e insieme seguimmo il progresso esaurirsi di quell’ondata e cercammo di analizzarne le cause per il «contrattacco». Che non ci fu, e che ora appare più lontano che mai. Da un lato, le idee federalistiche, anche quelle dello stesso Miglio, vennero massacrate dal leghismo prima in chiave separatistica e poi in chiave di neo-centralismo regionale; dall’altro, finirono con il prevalere le tendenze ministeriali – centralistiche da sempre presenti all’interno dei partiti della prima Repubblica. Il limite fondamentale della battaglia federalista fu quello di non riuscire a stringere in un discorso di sistema la «centralità» dell’Ente locale, della Città, con la riforma di Parlamento e Governo, e tutto questo con la riforma del sistema elettorale in una prospettiva francamente coerentemente maggioritaria.
Giorgio aveva perfettamente presente questo limite, ma all’interno della «ondata» federalistica che ha scosso questo Paese fino, grosso modo, al’96-’97, pochi, se non pochissimi andavano oltre a ottiche parziali. Anche tra i sindaci, che pure erano stati i soggetti fondamentali di quella “ondata», e che Giorgio Lago appoggiava con convinzione, i più badavano soltanto a rafforzare la propria posizione. Giorgio Lago sapeva che una riforma federalista, e quindi una nuova Costituzione italiana, non sarebbero mai nate da una semplice ridistribuzione dei poteri dati, sottraendo competenze e potere ad uno per darne
ad un altro. Federalismo non poteva ridursi ad un gioco a somma zero. Soltanto concependolo come un processo di arricchimento dei poteri di ciascuna dimensione istituzionale, poteri originari e non derivati, esso si sarebbe potuto affermare. Altrimenti avrebbero vinto le resistenze centralistiche, le inerzie o le chiacchiere demagogiche. E così puntualmente è stato. Ma non è questo il momento né il luogo per fare la storia di quegli anni. La storia non della nascita, ma dell’aborto della seconda Repubblica. La situazione dei primi anni 90, e le occasioni che essa offriva, non si ripeteranno più. Per non indulgere a facili pessimismi occorrerebbe davvero avere ancora qui con noi Giorgio Lago, la sua capacità di cogliere ictu oculi le trasformazioni sociali e i soggetti potenzialmente in grado di dare ad esse esiti costituenti. Si è chiuso un ciclo politico e insieme un ciclo economico, e questo è particolarmente avvertibile proprio qui nell’ex mitico Nordest; nei suoi ultimi articoli era questo il tema centrale affrontato da Giorgio. Ma per vedere oltre, per intuire ciò che può «avanzare», e che certamente «avanzerà», alla crisi, ci mancheranno il suo realismo, il suo disincanto, la sua intelligenza critica, il suo rigore morale, la sua passione civile.
Un anno è andato via, lungo come un secolo ma passato in un nanosecondo. L’assenza di Giorgio Lago, cominciata alle 7.45 di domenica 13 marzo 2005, per chi gli era amico è rimasta inconsolata e chi gli era prossimo come lettore non ha ancora trovato riferimenti altrettanto sicuri cui rivolgersi. Giorgio ha lasciato molti vuoti. Vuoti politici, vuoti giornalistici, vuoti personali. C’è chi, per restare sul personale, in piazza a Castelfranco, non ci va quasi più, tanto sa che non potrà incrociarlo, in libreria da Massaro, sotto i portici o al mercato, in sella o con la bicicletta a mano, apparentemente trafelato, ma pronto a fermarsi, anche a discutere per ore, quando l’argomento valeva. E anche quando non valeva la pena, da uomo d’altri tempi, sapeva trovare una battuta, una chiacchiera, un ammiccamento, una battuta, un cenno, un saluto, una gentilezza. Nel suo essere sempre disponibile al confronto, anche il più ostico, era a modo suo un guru, specie tra quanti, autentici liberal, magari più anziani di lui, si sentivano defraudati da una destra «cialtrona e stracciona» che impediva loro ormai anche di essere liberali come volevano continuare a essere e gli chiedevano il modo per farlo senza sentirsi dare dei «comunisti».
Adesso, in piazza, ha meno senso andarci.
Ci fosse almeno una Prospettiva Giorgio Lago, una targa, una panchina, una mattonella, dove sostare nel la riflessione. Ma pare che la città di Giorgione non ci abbia ancora pensato. Come Venezia, peraltro. Forse nell’imminenza della ricorrenza muoverà qualche carta, farà qualche proposta, butterà qualche mezza idea. In realtà la sua città, tolti gli amici sinceri, e per fortuna sono ancora molti, fatica a inserire Giorgio Lago nella dimensione che gli compete. Non capisce di aver avuto di fronte un gigante del suo tempo. Un uomo che nel suo campo può essere accostato solo a Menego Sartor. Per trovare altri alla loro altezza, a Castelfranco, bisogna andare indietro nei secoli. Ma gli unici a non accorgersene, purtroppo, sono gli amministratori castellani, superati in questo perfino da Jesolo che gli ha almeno intitolato un premio giornalistico.
E non è che la Provincia di Treviso e la Regione Veneto ci facciano una figura molto migliore, ma almeno loro hanno l’attenuante (ridicola, peraltro) di vedere in Giorgio Lago un fiero avversario, anche nella memoria. Non tutti dalla sua parte hanno l’intelligenza politica e la stima per l’uomo, oltre al vanto dell’amicizia, di un Bepi Covre.
Interpretare le intenzioni di chi non c’è più è arbitrario, antipatico e ingiusto, ovvio ma difficilmente in un clima ostile come quello che viviamo in questi mesi si riesce a trovare posto per i galantuomini, i quali per amore di sé stessi e della propria correttezza hanno sempre sentito il bisogno di dire quello che pensano. Ecco un altro vuoto lasciato da chi avrebbe sicuramente apprezzato l’endorsement di Mieli. Viene da pensar che in una campagna elettorale lunga un anno, una campagna di uomini-contro, lui che avrebbe sicuramente rifiutato una naturale candidatura avrebbe ugualmente con determinazione solcato la burrasca per chiudere un capitolo della storia repubblicana che giudicava una jattura. Questo ritorno al proporzionale, la spallata dei partiti sulla scelta dei parlamentari e le ultime leggi ad personam, così come le riforme della giustizia a uso del principe, lo avrebbero fatto uscire dai gangheri come null’altro mai (per l’ennesima volta, ad essere sinceri). E vi si sarebbe scagliato contro con tutta la foga, l’acume e l’arguzia di cui era maestro, senza farsi travolgere dall’ira, e che purtroppo tra tanti sedicenti discepoli che battono tasti per guadagnarsi il pane non ha ancora trovato eredi, eccezion fatta per Gianantonio Stella, probabilmente. Sapendo di non trovare nulla di suo anche i giornali si aprono meno volentieri, un anno dopo.
Nessuno vuole alzare bandiera bianca, evidente. Ma sarebbe bugiardo negare che la lucidità delle sue analisi, le lunghe conversazioni, le provocazioni che sovente lanciava mancano a chi legge come a chi scrive.
Sono successe tante cose nel secolo-nanosecondo di assenza di Giorgio in questa parte di mondo ai suoi tempi chiamata Nordest. L’ansia, la precarietà, la disoccupazione, la paura, la concorrenza, la mancanza di risposte e soprattutto di prospettive e idee hanno perso il cronista che sapeva metterle in ordine per pesarle, esaminarle alla radice, vivisezionarle e trovare risposte. Non era l’Oracolo di Delfi, certo, ma un approdo sicuro con cui era possibile trovare la misura delle cose che contavano e delle possibili prospettive da prendere in considerazione per intraprendere un ragionamento,
un’analisi, per trovare una soluzione. Perdersi in un mare in tempesta come quello dell’economia globale è più facile da un anno a questa parte e non solo nel Nordest.
Ma senza Giorgio Lago sono in tanti ad essersi smarriti. Non è dato sapere, e non lo chiederemo mai, se Emina, se Paolo e Francesco, i suoi amatissimi figli, hanno esaudito il segreto desiderio di Giorgio per l’eternità. Giorgio Lago era un autentico «razza Piave», e come il fiume affondava le sue radici sulle nostre montagne. Sopra Mel, c’è un pascolo appartenuto alla sua famiglia, che considerava la sua vera sorgente. Un giorno confido il desiderio che un pugno della sua cenere fosse sparso lì. Quasi presentisse che le città che lui aveva adottato, ingrate, Castelfranco, Treviso, ma anche Venezia, dove ha lavorato per la maggior parte della sua vita, di lui si sarebbero presto dimenticate.
Giorgio avrebbe voluto tornare li a Mel, dove tutto era cominciato e dove voleva che qualcosa tornasse, per sempre.