Alessandro Russello – Corriere del Veneto (2011)

“Il Nordest di Lago e quello da (re)inventare”

Senza tante o bastevoli strade il Nordest s’è fatto strada nel mondo sollevandosi con la forza disumana di una terra che sembrava condannata alle lateralità delle società mature, ma nella storia di questo straordinario alzarsi con la potenza non solo meccanica di lavoro-meningi-fatica c’è soprattutto un uomo che gli ha saputo dare compiutamente orgoglio. O certamente lo ha fatto per primo. Elevando questa terra dalla stazione orizzontale a quella verticale, cucendo il Pil dell’anarchismo produttivo con il filo di una forma «politica» declinata col giornalismo che fu l’esordio di una capacità di rappresentazione liberata dagli stereotipi santoriani della civiltà del capannone reclinata su stessa.
“Facchino del Nordest”, si autodefinì Giorgio Lago nella sfida agra di caricarsi sulle spalle il compito di raccontare la sua-nostra latitudine con la grammatica giusta e senza l’enfasi di chi autoassolve i propri vizi. Scriveva: «Sono orgoglioso di essere veneto. Sono liberal da sempre, nel senso della rivoluzione liberale di Pietro Gobetti, e sono federalista per sempre. Vengo dalla borghesia operosa, che ha cultura di onestà e un istinto spontaneo a mescolarsi con gli altri».
Laico e inclusivo, anti-ideologico però netto, terrigno perché proiettato verso l’orizzonte del Grappa ma capace del pensiero acquatico di chi non ha mai eretto muri, quando a Berlino crollo il Grande Muro intercettò subito la dignità degli umori di questa regione e se ne assunse, dalla direzione de «Il Gazzettino», una guida sferzante. Attraverso lo scontro anche duro con una classe politica che avrebbe avuto una fine repentina (e la cui progettualità più di qualcuno oggi al contempo rimpiange) e il rischio della collateralità al movimento emergente, la Lega.
Lo accusarono di reggere parti e partito, di essere anti-sistemico, di strizzare l’occhio ad un autonomismo un po’ naif e un po’ «senza futuro». Invece, nell’aristocrazia del suo pensiero, era empatico con quella neoborghesia che nel vuoto strategico della politica cercava fari dentro e oltre l’urna. «Io – diceva rivendicando autonomia critica – non sono né lighista né leghista. Casomai laghista». Un «laghismo», il suo, capace di intercettare i fermenti di quel movimento nascente ma anche o soprattutto di attaccare il partito che oggi governa il Veneto trovando in Bossi l’ostacolo primo verso quello che per lui era il vero sogno federalista. Incarnato dal trasversale «Movimento dei sindaci» del quale facevano parte, fra gli altri, il politico-filosofo Massimo Cacciari, l’eretico del Carroccio Bepi Covre, il sindaco-imprenditore Riccardo Illy, il parlamentare Maurizio Fistarol e l’industriale liberal Mario Carraro.
Un’utopia, più che un sogno, nel Paese dove i progetti delle nobili trasversalità che puntano agli obiettivi impossibili cadono sempre male. Ma un’utopia rimasta nell’aria trascinando un pezzo di realtà che vivendo sopra o sotto la politica sentiva il bisogno almeno di legittimazione «culturale». Che fosse la battaglia contro lo Stato burocratico e lontano per mettere un semaforo all’incrocio dove la gente moriva (memorabile l’editoriale di Lago intitolato «Leggete l’articolo a pagina 5», che fu una lezione di giornalismo e forse resta la pietra angolare dell’autocoscienza del Nordest) o che si trattasse di dare voce e schiena a una terra che aveva la produttività di una nazione e la rappresentatività di un quartiere. La «nazione» post fordista del capitalismo molecolare, della locomotiva a traino familiare che esplorando il mondo costruiva al contempo l’architettura esplosiva e disordinata della metropoli diffusa. Arrivava dritto, Giorgio Lago. Di testa e di penna. Scrittura asciutta e brillante, mirava alto ma possedendo le chiavi d’ingresso nella dimensione popolare. Forse, anche, perché un bel pezzo della sua vita professionale l’aveva dedicata allo sport, la parte più difficile del giornalismo per chi, come lui, confessava: «Sono sempre stato nello sport, ma guardando a qualcosa d’altro».

Un’extraterritorialità un po’ breriana («Brera era il più bravo, inarrivabile»), che gli consentiva – come i poeti folgorati dall’epica muscolare del gol – di raccontare ciò che è sotto gli occhi e nel cuore di tutti con lo sguardo di chi non confina una partita in uno stadio o nelle traiettorie della domenica. E arrivava dritto, Giorgio Lago, anche in quell’apparente territorio «popolare» che è la cronaca. Non racconto che procede sulla superficie delle parole ma profondità di lettura su amore, morte, odio, tradimento, vizio, virtù. Shakespeare in sedicesimi, il sale della vita, i fatti del quotidiano che anche qui – spesso più inarrivabili della fantasia – alla fine infilano sempre nella creatività di scrittori e registi. Prima di morire della morte che ha saputo affrontare con la forza e la spiritualità di laico in ascolto rafforzata anche dall’amicizia con padre Toradol – da lui sempre citatissimo – facevamo lunghe telefonate nelle quali si doleva di non poter vivere più il suo Nordest. Frequentare le città, parlare con gli imprenditori, entrare nelle loro aziende, incontrare la gente, interrogarne le emozioni. Anche semplicemente fermarsi davanti alle edicole della sua Castelfranco a respirare, attraverso l’inchiostro dei giornali, l’odore della civiltà che amava. Se potessimo, oggi che da sei anni ci manca, lo vorremmo rivedere proprio li, dove calpestava la suola da cronista e direttore di razza, inviato speciale in ogni minimitudine, ovunque si muovesse qualcosa di nuovo. Per cui gli chiederemmo di oracolare sulla religione di questa terra che non è solo il senso del sacro ma la liturgia del lavoro. Gli chiederemmo di decifrare il sentimento di un popolo di produttori che senza antagonismi radicali
– la fabbrica del metalmezzadro o del perito industriale diventati imprenditori – insegue lembi di ripresa ma nell’assenza di lavoro nell’ex terra dalla piena occupazione. Gli chiederemmo dei suicidi degli ex operai diventati padroni toltisi la vita per non licenziare la memoria di sé stessi; gli chiederemmo degli operai rimasti tali che nella società solidale non sono riusciti a superare vivi la depressione e la vergogna per la perdita del posto di lavoro. Gli chiederemmo ancora, nelle pieghe di questa crisi dai contorni spazio-temporali indefinibili, se la neoborghesia campionessa di capitalismo familiare ha un futuro dove e quanto, e soprattutto se l’internazionalizzazione sarà davvero la nuova stella polare del Nordest.
Come, ancora, da lui vorremmo sapere se la Lega non più sintomo ma fenomeno, alla quale si affida una fetta sempre maggiore della neoborghesia, nel suo fare le prove generali per diventare classe dirigente arriverà ad essere un partito maturo che non gioca con la sempiterna ambiguità dell’esser di lotta e di governo; oppure se il suo tagliar fuori i livelli di potere intermedi rivolgendosi direttamente al “popolo” attraverso il termometro del consenso misurato sulle scosse emozionali condurrà ad una forma di autarchia nella quale il resto della società civile sarà un corollario senza ruolo.
E nel reinventare il Nordest che resta, qui e ora, anche forte nel suo Pil e dannatamente fragile nel paesaggio ferito da toscanizzare, gli chiederemmo infine se e quanto decisive saranno le reti materiali e immateriali di cui proprio in questi giorni, anche nel suo nome, si parlerà al Festival Città Impresa, dove la civiltà del capannone verrà indagata e riempita di futuro con l’obiettivo di fare del Nordest solido e liquido, d’arte e d’artigianato, meccanico e digitale, la Capitale della Cultura.
Non avremo mai, ovviamente, una sola risposta. Di sicuro sappiamo che di fronte ai mutamenti di questo Nordest, Giorgio Lago avrebbe trovato il modo di decifrarlo e raccontarlo rappresentandolo con l’amore di un figlio orgoglioso e la severa coscienza di un padre fondatore.

di Alessandro Russello