Francesco Jori – La storia di tante storie (2016)

La storia di tante storie – Giornali e giornalisti del Veneto

Gli piaceva definirsi ” geograficamente un intreccio di tutto il Veneto”: per anagrafe, ma anche per formazione. Giorgio Lago nasce a Vazzola, a un tiro di schioppo da Conegliano, il 1° settembre 1937; madre bellunese, padre padovano; studi a Treviso (liceo classico) e Padova (università); una vita vissuta quasi interamente a Castelfranco dal 1956, salvo una breve parentesi milanese di cinque anni. Che gli serve però per il decollo professionale partendo dal giornalismo sportivo. Ha 26 anni quando, a Jesolo, Conosce Gianni Reef, direttore di “Supersport”. Di carta stampata non ha alcuna esperienza, ma gli chiede di collaborare. Per prendergli le misure, Reif gli affida un pezzullo di 30 righe su una gara ciclistica. Che finisce pari pari sul settimanale: fatto come si deve, anzi di più, al punto per Lago da venire arruolato al volo e portato a Milano. Un trapianto durato cinque anni, fondamentale per il suo futuro professionale: “Quell’esperienza mi ha sprovincializzato, mi ha trasmesso il senso della concorrenza, mi ha dato la più grande lezione giornalistica”‘, racconterà molti anni dopo. E che lezione: tra i suoi “professori” c’è un certo Gianni Brera, a cui l’avrebbe legato poi un grande affetto e una stima reciproca. Tornato in Veneto nel 1968, Lago approda come capo dei servizi sportivi in quel “Gazzettino in cui avrebbe trascorso quasi trent’anni, dodici dei quali da direttore: racconterà Olimpiadi e Mondiali di calcio, personaggi e grandi imprese. Ma la sua formazione va ben oltre lo sport. Fin da ragazzo, al liceo, ha assorbito il liberalismo di Gobetta e Calamandrei, di Croce ed Einaudi, “scoprendo la politica con un professore marxista che ci ha abituati alla dialettica”, ricorderà poi: era Ettore Lucchini, insegnava filosofia ma soprattutto a vivere con la propria testa. A questo aggiunge, di suo, il filone cattolico del personalismo di Maritain, “perché io sono un laico ma ho sempre respirato, da mia madre e nel mio contesto culturale veneto, aria cristiana”. E questo impasto plurale a ispirargli un’autentica filosofia di vita e di lavoro che poggia sul pilastro di un’identità rivisitata e ribadita: se il mestiere lo porta in giro per il mondo, ogni volta il ritorno nella terra d’origine lo vive, per usare le sue stesse parole, come “un approdo a un rifugio dell’anima, non a un luogo di separatezza”. Di più: tiene a chiarire di sentirsi “un contadino, dalla testa ai piedi” Perché, spiega, “amo la terra, mi piace stendermici sopra, sentire il profumo dell’erba e del fieno”.

È un Dna che trasferisce pari pari al suo giornale, quando il 21 giugno 1984 scrive per la prima volta da direttore (il ventunesimo dopo il mitico fondatore, Gianpietro Talamini; dopo di lui il più longevo nell’incarico) il suo saluto ai lettori. Non a caso sottolinea tra l’altro: “Il Gazzettino ha una radice robusta, penetrante, che gli consente di essere uno degli elementi di identificazione della realtà triveneta”. Per accettare il ruolo ha posto tre condizioni, ottenendo altrettante risposte positive: la voglia di investite sul prodotto, l’ambizione a potenziarne ed espanderne l’area diffusionale, l’intenzione di fare un giornale che si occupi di politica senza riferimenti partitici. Il quotidiano vive di un confronto permanente con i lettori: scelta ripagata in una diffusione che aumenta fino a raggiungere le 140 mila copie dalle 90 mila di partenza, e da una credibilità trasversale. La sua idea di giornale ruota attorno a una stampa “che debba servire i governati non i governanti”, e caratterizzata dalla convinzione che “la libertà dei giornalisti è importante quanto la libertà dei cittadini dai giornalisti da Palazzo”.

È grazie a questa filosofia di fondo che Lago riesce a cogliere con straordinario anticipo i fermenti in atto in una politica già in crisi senza essere riuscita a rendersene conto. Nel 1986, ben prima di Tangentopoli, in una prima Repubblica che si ritiene più che mai rampante e indistruttibile, segnala che tutto il sistema dei poteri scricchiola, sottoposto a mutamenti e tensioni… serve una Politica con la maiuscola”. Attacca frontalmente il centralismo, ma individua lucidamente anche i limiti dei poteri locali così come sviluppatisi negli anni: nel 1987 avverte che “queste Regioni vanno rifatte… il malessere può sfociare in una polverizzazione di campanile che rappresenta l’angolo cieco dell’autonomia”. E tra i primissimi a capire la forza dirompente della Lega fin dai passi iniziali: giudica il movimento dalla parte di chi lo vota non di chi lo dirige. A inizio anni Novanta, quando il Carroccio raccoglie a sorpresa i primi consistenti risultati, ne spiega le motivazioni: “E la domanda di autonomia a prevalere, perché la sola a garantire un qualche sbocco alla protesta; che non ha come bersaglio i partiti ma la partitocrazia, cioè una degenerazione che umilia prima di tutto la Costituzione repubblicana”. Lui che si autodefinisce “liberal da sempre e federalista per sempre”, sviluppa questa linea incardinandola nel Nord-Est, e candidandolo (ma al tempo stesso sollecitandolo) a diventare laboratorio della modernizzazione del Paese. A questo compito chiama in particolare i sindaci, che riesce a mobilitare fino a farne una sorta di partito trasversale con un obiettivo ben preciso: “Dare una spallata allo Stato burocratico sprecone fiscale centralista, cioè il peggio della cultura antiautonomista, il nemico dell’autogoverno e della responsabilizzazione… una battaglia apartitica perché utile a tutti i partiti”. E chiarisce: “Il Nord-Est non vuol dare lezioni a chicchessia, e tuttavia respinge le prediche ipocrite di chi gli rinfaccia di pensare ai soldi e basta”. In questo senso contesta le letture stereotipate che da fuori guardano al piccolo imprenditore nordestino come a una persona ricca e ignorante, preoccupata solo degli “schèi”; propone, in contro-tendenza, il fenomeno del “capitalismo dell’uomo qualunque” il quale il lavoro è prima di tutto un valore identitario, nel solco di quanto così ben descritto da Luigi Meneghello. E rimette in campo il ruolo del territorio e del radicamento ad esso, in antitesi con lo spaesamento da globalizzazione. Un fenomeno, quest’ultimo, che di nuovo coglie con largo anticipo, segnalando già nel 1988, quando la parola stessa “globalizzazione” è di là da venire, “la forbice che si sta aprendo tra problemi locali e villaggio totale: non più tutto il mondo è paese, ma ogni paese è il mondo”; aggiungendo che “lo spaesamento da sviluppo scatena il bisogno di identità locale, e chiama in causa la politica come organizzazione dei problemi e loro sintesi”. A un Nord-Est spaesato, inquieto, smarrito, sofferente di malessere da benessere, ma incapace di definirlo e di comprenderlo, Lago ha dato uno strumento per chiamare per nome questo stato d’animo, per identificarlo, per superarlo. L’ha fatto fino all’ultimo giorno, nel 1996, continuando poi per quasi dieci anni da editorialista di “Repubblica” e dei quotidiani del Gruppo Espresso; e l’ha fatto senza mai cedere al pessimismo, anche quando i tempi, gli uomini, le situazioni sembravano chiudere ogni orizzonte o comunque renderlo tremendamente basso. Tutto questo gli è valso la felice definizione di “inguaribile riformista” che dà il titolo a un libro in cui uno dei colleghi da lui più stimati, Paolo Possamai, ha raccolto il meglio della sua appassionata battaglia giornalistica. Muore il 13 marzo 2005 a Castelfranco, stroncato da una malattia cui ha tenuto testa fino all’ultimo con straordinario coraggio e con esemplare serenità.

di Francesco Jori