Francesco Jori – Intervento al premio Giorgio Lago (2017)
Intervento alla premiazione del Premio Giorgio Lago a Castelfranco Veneto (TV)
“Lasciami anche dalla tomba / un pertugio, che io possa / ancora vedere / il sole che sorge / una nuvola d’oro / Espero che riluce la sera / in un limpido cielo”. Sono versi che padre David Maria Toradol scriveva poco prima di morire, stroncato da un tumore. Un uomo, Toradol, che ha sempre abitato la parola senza mai prendervi stabilmente dimora: libero nello spirito, quindi nel giudizio. E forse proprio per questo si era incontrato a pelle con Giorgio Lago, per lunghi anni direttore del “Gazzettino”: che gli aveva dato spazio sul giornale, ma soprattutto gli si era legato di una saldissima amicizia; forse e senza forse, la persona con cui aveva allacciato il rapporto più stretto, fra le tantissime che la professione gli aveva fatto incrociare.
“Il mio Isaia”, lo chiamava Giorgio: uno dei più grandi tra i profeti, tra i più visionari, di più profondo respiro. Di lui scrisse un giorno, con quelle immagini nitide e potenti che gli erano proprie: “La formidabile modernità, anzi contemporaneità di Turoldo, sta proprio nell’aver disossato la fede fino al limite della lama; la sua fede è un salmo più che un dogma, è un mettersi di traversi più che un infilarsi prudentemente in coda”. Sono parole scritte da Giorgio anche nel suo caso poco prima di morire, anch’egli stroncato da un male come quello di padre David. E Dio sa quanto ci sarebbe bisogno, oggi più che mai, di quella voce calda e severa che fa ci invitava a occuparci e preoccuparci di “un mondo senza infanzia: siamo tutti vecchi e storditi”; al punto da avere ridotto perfino Gesù a “un bambino di gesso, nulla di più triste nei nostri presepi”. E quanto ci sarebbe bisogno di una voce come quella di Giorgio Lago, così essenziale nella forma quanto profonda nei contenuti, che ci chiamava ad un inesausto impegno civile.
Ma perché ho scelto quei versi di Turoldo per parlare di Lago? Perché avrebbe potuto scriverli benissimo lui, Giorgio; e perché in fondo, a ben vedere, sono stati esauditi da un Padreterno che conosce bene il valore delle testimonianze: a venticinque anni dalla scomparsa di David, e a 12 da quella di Giorgio, entrambi continuano a parlarci attraverso quel pertugio, e a farci sentire l’attualità del loro messaggio. Giorgio Lago, in particolare, lo fa oggi attraverso questo evento di cui siamo protagonisti, e che si accompagna a una delle sue grandi passioni, i libri. Ne teneva dovunque: in tutti gli angoli della casa; in ufficio, per farne dono a chiunque entrasse; perfino in macchina, per trovare l’occasione di leggerne uno se d’improvviso si trovava in una coda.
Ha scelto una citazione perfetta, il sindaco, proponendoci le parole che Marguerite Yourcenar attribuisce ad Adriano nelle sue Memorie: “Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi vedo, mio malgrado, venire”. Dio sa quanta fondata sia questa riflessione. Se oggi la grande autrice mettesse mano a una nuova edizione del suo capolavoro, forse non si limiterebbe a quella parola, “inverno”: dovrebbe parlare di una sorta di era glaciale, tanto ci sentiamo assediati dal non-senso di un mondo alla deriva; a maggior ragione la saggezza dei libri può rappresentare l’antidoto per evitare il congelamento a chi ancora non si rassegna a portare la testa all’ammasso. Ma io voglio qui suggerirvi un altro stimolo sempre sullo stesso argomento, e cioè la scritta che campeggia sul frontone della biblioteca di Murcia, in Spagna: “La biblioteca è il luogo dove i morti aprono le porte ai vivi”. Sì: prendendo in mano un libro del passato sentiamo parlare voci di grande profondità; sentiamo che chi le ha scritte non è morto, ma continua a vivere negli stimoli che ci trasmette. C’è tuttavia anche un’altra chiave di lettura dei versi di Toradol. Quel pertugio da lasciare aperto mi richiama la porta dell’ufficio di Giorgio Lago al “Gazzettino”, perennemente aperta come a invitare chi passasse davanti ad entrarvi per un saluto, uno scambio di idee, un condividere emozioni. Cosa rara, nei giornali, dove tante porte chiuse mascherano forse il vuoto che c’è dietro. Quell’ufficio aperto aveva anche un valore altamente simbolico: perché rappresentava il modo di Giorgio di interpretare il giornalismo. A livello interno: era convinto profondamente che il giornale sia un’opera collettiva, che nasceva dalla somma di contributi grandi e piccoli di chiunque; tant’è che alla classica riunione di redazione se ne affiancava ogni giorno un’altra, nella sala mensa, dove unendo i tavoli ci si trovava a discutere di fatti e situazioni; e ogni tanto, alzandosi per tornare al lavoro, Giorgio diceva a qualcuno: vai su, e scrivi quello che ci siamo detti. E a livello esterno, in pari misura: il suo era un invito a tenere costantemente la mente e il cuore aperti al tumulto di un mondo in impetuoso cambiamento, alle sue dirompenti novità, ai segnali che fermentano sottotraccia: non solo per raccontarli ma anche per spingerli e promuoverli. Esemplare in tal senso è stata la sua battaglia federalista, prima ricordata dall’amico Bepi Covre: tanto più oggi in cui il federalismo che a suo tempo aveva sollevato tanti entusiasmi, molti dei quali solamente ipocriti e opportunisti, è oggi ridotto a carta straccia. Penso al ruolo dei sindaci, alla battaglia partita da quel semaforo negato di motta di Livenza, al percorso che come ha ben spiegato Covre avrebbe portato ai decreti Bassanini: calpestati poi anche questi nei fatti, considerando che anziché condurre alla sostituzione di un livello burocratico con un altro, com’era nel loro spirito, sono approdati alla sovrapposizione di un livello ad un altro, così mortificandoli. Siamo purtroppo in un Paese in cui la causa federalista è stata sconfitta in dai primi tempi dell’unità d’Italia, con la bocciatura della proposta Minchietti; e da lì è stato un ininterrotto bombardamento centralista. Contro il quale Giorgio si è scagliato ripetutamente con veemenza. Voglio qui ricordare solo un breve ma significativo passo, forse il più incisivo, del 1995: quando esortava a “dare una spallata allo Stato burocratico sprecone fiscale centralista, cioè il peggio della cultura antiautonomista, il nemico dell’autogoverno e della responsabilizzazione… l’unità del nostro Paese è messa a rischio soltanto da chi conserva lo Stato così come sta, un guscio pieno di poteri e vuoto di doveri”. Oggettivamente, oggi dobbiamo parlare di una battaglia persa; e Giorgio per primo ne era consapevole. All’assessore regionale Caner che prima si chiedeva cosa scriverebbe oggi al riguardo, posso fornirgli una risposta di prima mano, attinta all’amaro quanto lucido verdetto da lui emesso in uno dei suoi ultimi articoli prima di morire, lì dove definiva il federalismo “carta igienica del riformismo all’italiana”.
Sì, Giorgio ne era consapevole, ma non per questo né rassegnato né deluso. Perché lui, uomo di plurime e inesauribili letture, aveva certamente ben presente la grande lezione di John Steinbeck nel suo “La luna è tramontata”, lì dove ammoniva che “sono gli uomini-gregge che vincono le battaglie, ma sono gli uomini liberi che vincono le guerre”. E Giorgio è stato, indiscutibilmente e fino all’ultimo, un uomo libero, proprio come David Maria Turoldo. Lo dimostra pienamente la sua concezione del giornale e del giornalismo, che si può ricavare da tanti suoi scritti.
Ma in questa circostanza, io voglio ricorrere a una testimonianza privata, perché il rapporto tra noi andava ben oltre l’aspetto professionale, per tradursi in una profonda sintonia e in una straordinaria amicizia. Ho qui una lettera che mi inviò nel Natale del 1989, rispondendo con straordinari stimoli a quelli che gli avevo trasmesso in una mia lettera per la circostanza. Ne leggerò solo alcuni passi, tralasciando quelli più strettamente personali, che erano e restano cosa nostra: “Ho una forza spaventosa dentro perché faccio le cose senza attendermi nulla… Ciò mi aiuta molto, più mi interrogo e più esisto, anche con il lavoro. Se gratuita, non è più fatica. Il più che fai di ciò che devi resta l’unico dono che puoi riconsegnare a te stesso, a patto che tu ne abbia segreta – dunque non esibita – coscienza… Per me fare giornalismo è immaginarmi altrove, incartare la parola per conto d’innumerevoli terzi. Tentare uno scambio. Il mio luogo ideale è il barbiere, il treno, il bar, la poltrona, il cesso, la sala d’attesa, la lucetta del letto. Quanti letti, cessi, barbieri, dove la gente t’afferra tra le mani, e basta un battito di palpebre per condividere, rifiutare o coprirti d’indifferenza… Il nostro è un lavoro eterno perché dura un giorno, ed è subito carta straccia: non vale per la sua permanenza, ma per la sua precarietà… non esiste usa e getta più radicale, noi facciamo il footing dell’ultima sera”. E così concludeva: “Non sono insoddisfatto, e però pago prezzi umanamente sempre alti perché sono incapace di astenermi. Non riesco a disincantarmi, a tenere le distanze; scoppio di passione. Figurati cosa te ne frega il giorno di Natale. E invece no, sono tanto narciso da avere la certezza che almeno un po’ te ne frega. Non so che cosa siamo noi due, due colleghi, due amici, due passanti, due che ci cascano; una cosa però so con certezza: con te posso scambiare fino in fondo il gusto della fatica senza rendita, il piacere di investire la vita senza chiedere ritorni. Come capitalisti, siamo due… omissis; come persone, siamo più furbi perché trovo impagabile il piacere del disinteresse”. Ecco, voglio chiudere tornando ancora una volta a Turoldo, quando scriveva: “Vado alla ricerca non certo di un consenso né di un puro e semplice dissenso, ma solo di senso”.E’ esattamente il percorso che Giorgio Lagi ha fatto da uomo e da giornalista; ed è questa l’eredità che siamo tenuti non solo a conservare ma anche e soprattutto a far fruttare, se davvero gli vogliamo bene: oggi soprattutto, nel grigio di un mondo senza senso apparente. Non siamo qui oggi per commemorare una figura pur di grande valore che se n’è andata, ma per farne rivivere il messaggio e i valori. Se ne vanno solo le persone che non ci amano più, le altre restano sempre con noi.
Ed è per questo che oggi, qui, adesso, Giorgio Lago è con noi. Grazie.
di Francesco Jori