1978 maggio 27 Mundial miliardi
1978 maggio 27 – Mundial miliardi
Il calcio è un’industria e Buenos Aires la sua fiera internazionale
BUENOS AIRES – Il primo mondiale di football lo giocarono due passi da qui,
sull’altra sponda del Rio de la Plata, a Montevideo. Allora l’Uruguay era la Svizzera
del Sudamerica e la sua moneta si chiamava dollaro: l’organizzazione ne incassò 250
mila circa, quanto bastò per pagare le spese a tutte e tredici le finaliste. L’Italia dei
pugni di Carnera, delle battute di Petrolini e della canzone “J’ai deux amours” aveva
già i gol di Peppino Meazza ma non esportava ancora il calcio di Vittorio Pozzo,
destinato a diventare il migliore del pianeta nel ’34 e nel ’38.
Il Mundial che ritorna sul Rio de la Plata è oggi tutta un’altra cosa. Può servire da
biglietto da visita di una dittatura. Può servire da pretesto per munire Buenos Aires di
un moderno aeroporto. Quanto alle cifre, quella in vecchi dollari uruguaiani ha l’aria
di un’elemosina. Il pool televisivo del Mundial ’78 renderà 25 milioni di marchi, circa
10 miliardi di lire; il pool pubblicitario altri 20 milioni di marchi. L’Ente Autarchico
che ha organizzato questo campionato prevede di vendere il 70 per cento dei biglietti
a disposizione per le 38 partite, ma ciò che conta in tutti i grandi appuntamenti dello
sport moderno sono le masse a colori e in bianco e nero della mondovisione.
I 352 giocatori qualificatisi ai Mondiali di Argentina intonano gli inni nazionali e
reggono le bandiere ma sono anche la punta di un colossale iceberg professionistico.
Qui non si sta a cercare il pelo nell’uovo del presunto dilettantismo olimpico: qui
nessuno, né tra gli organizzatori né tra i protagonisti, ha vergogna a parlare di denaro.
Basti pensare ai premi, per superare il primo o il secondo turno o, addirittura, per
vincere la finale. Quelli degli olandesi sono il record mondiale, tanto che Artemio
Franchi, presidente del Calcio europeo, li definisce “pazzeschi”, a palate di fiorini,
soprattutto ora che l’Olanda deve fare a meno di Johan Cruyff, l’asso ritiratosi a vita
privata dopo aver per anni commutato gol in valuta altrettanto pregiata.
I tedeschi sono di poco inferiori e, oltre ai giocatori, premiano anche le squadre che
hanno dato i convocati alla Nazionale. In questo settore l’Italia ha sempre retto
benissimo gli standard dell’opulenta Cee e, per il secondo posto a Mexico ’70, pagò
otto milioni a ciascun giocatore: tenuto conto della svalutazione, sia della lira che
della squadra, è lecito supporre che la Federcalcio offrirà ora cinque milioni pro
capite per superare il primo turno. Non amando il Ct azzurro Bearzot e non essendone
riamato, il terzino Maldera non voleva accettare la trasferta in Argentina: “Alla fine ho
detto sì – mi confessa con molta onestà – soltanto perché me l’ha chiesto Rivera e
perché c’è la possibilità di guadagnare in pochi giorni una barca di soldi”.
Non c’è da stupire di nulla, né da scandalizzarsi se si tiene presente che cosa significa
l’industria-calcio in Italia. Un milione di giocatori, ventimila società, 300 mila partite
l’anno, 127 milioni di spettatori, 152 miliardi di incasso e un movimento collaterale,
soprattutto turistico, valutato intorno ai 600 miliardi. Non c’è fenomeno più popolare
di questo e si capisce perciò come la Nazionale ai mondiali provochi attese morbose,
reazioni al pomodoro, deliranti evasioni e persino interrogazioni in parlamento. Un
peso sotto il quale la panchina del Ct può opporre la resistenza di uno stecchino. Nel
’66, dopo la sconfitta con la Corea, il sindaco di Acquafontana (un paesino nei pressi
di Cassino) inviò questo telegramma al presidente della Federcalcio: “Popolazione
indignata
immediata Ct Fabbri negandogli competenze
contrattuali e destinando detto importo a comuni depressi per costruzioni impianti
sportivi”. Invocazione naturalmente inevasa e, da allora, Fabbri investì le lire azzurre
nella produzione di vini cui, non si sa se per nemesi o per amore, impose i nomi dei
suoi celebri e umiliatissimi campioni, Mazzola, Rivera, Bulgarelli.
invoca destituzione
Esiste nello sport una tendenza puritana che guarda ai kolossal quali il campionato del
mondo come a un baraccone
inquinato dall’interesse: “Bisogna disinfettare
l’ambiente”, ammoniva ancora dieci anni fa Vittorio Pozzo. Tuttavia, il germe è
antico, meglio, è lo stesso gene del football-spettacolo. L’Uruguay considerò per
esempio festività nazionale il giorno in cui, era il 31 luglio del 1930, la sua squadra
vinse il primo mondiale e ad ogni giocatore fu donata una casa. Nello stesso anno, re
Carol di Romania premiò il discreto comportamento della sua nazionale con un
viaggio di tre mesi, una visita a New York e una decorazione sportiva.
Non so se sia un male o un bene, ma so con certezza che è la realtà del nostro tempo:
su avvenimenti di questo tipo, selettivi nella recita e massificati nella ricezione, la
speculazione è istituzionalizzata, e il turismo s’appiccica allo sport peggio di un
parassita, spremendolo fino all’ultimo tagliando. La camera di un hotel di prima
categoria, sulla grande Avenida Corrientes a Buenos Aires, costa d’inverno 34 dollari
ma, dopo la mediazione dell’Ente Autarchico e della agenzie di viaggio, la paghiamo
qualcosa come centomila lire al giorno.
Non a caso l’Ungheria sarà tra le ultime squadre ad arrivare in Argentina, giudicando
troppo costosa la trasferta. Chi non si preoccupa affatto su questo piano è la nazionale
italiana che, potendo contare su un potenziale pubblico di 10 milioni di emigrati,
provocherà una serie di “tutto esaurito” incassando le proporzionali tangenti, come
accadde quattro anni fa in Germania: l’Italia fu allora eliminata dopo sole tre partite e
ciò nonostante le bastarono quei tre incassi a farle chiudere il bilancio del mondiale
con 100 milioni secchi di attivo, come da bilancio.
La contabilità di un mondiale non lo burocratizza, semmai aiuta a cogliere meglio la
radice di certi raptus, stress, ansie. E nessuna cifra riuscirà mai a ridurre una verde
pelouse a un tappeto di casinò. Alle ore quindici del 1° giugno a Buenos Aires la
prima pedata scaraventerà in fuorigioco investimenti e conti i banca, lasciando spazio
al solo gesto atletico e a un umanissimo intruglio dove tutto sarà miscelato e
identificabile, la razza, lo stile, la scuola, l’etnos, la nazionalità, la tradizione, l’istinto,
la cultura, di una squadra e attraverso essa di un popolo.
Nebbiosa al mattino e ventilata alla sera, questa città di oltre otto milioni di abitanti
coltiva il suo Mundial per dimostrare qualcosa a se stessa prima che agli altri, quasi a
ricordarsi giorno per giorno producendo e organizzando che l’inflazione è calata del
920 per cento annuale al 155 per cento, come risulta da un’ammissione rilasciata
l’altro ieri dallo stesso ministro dell’economia, José Alfredo Martinez de Hoz.
Ma a dare, più di ogni altra testimonianza, la misura di quanto significhi il Mundial
per l’Argentina cito l’estratto, pubblicato ieri dal giornale messicano Proceso, di una
cosiddetta guida delle azioni terroristiche che sarebbero in programma durante il
campionato del mondo da parte del movimento peronista montonero. La guida diffida
dal compiere azioni di qualsiasi tipo a una distanza “inferiore ai seicento metri dagli
stadi” o che “possano colpire persone ospiti dell’Argentina durante lo svolgimento del
torneo”.
Il documento, distinguendo drasticamente il Mundial dalla lotta alla dittatura,
conclude con questo slogan: “Argentina campeon, Videla al paredòn”, Argentina
campione, il dittatore al muro. Una sintesi tanto onnicomprensiva poteva uscire
soltanto dal complicato Sudamerica di Omar Sivori e di Che Guevara.