1980 agosto 25 Dopo la mazzata i santini dello sport sono da ristampare
1980 agosto 25 – IL CAMPIONE Dopo la mazzata i santini dello sport sono da
ristampare
Si era negli anni ’50 e lo scrittore Alberto Moravia stava conversando con
l’intellettuale comunista Mario Alicata. «Stalin è un porco!», intervenne ad un certo
punto Elsa Morante, moglie di Moravia. «Non tollero che si parli in questi termini del
capo dell’URSS» protestò con veemenza Alicata.
Era l’ossequio, persino patetico, al culto della personalità. Per quanta astrazione si
faccia al mondo, per quanta ideologia, per quanto teorizzare, il pallino delle cose
torna alla fine in mano all’uomo, al personaggio. Anche il sistema politico più
pianificato e collettivista della storia non riesce a far scomparire, ed anzi esalta, la
figura del capo o leader. In cima alla piramide spunta sempre un mezzo busto. Le
masse hanno bisogno di una faccia, per affidarvisi o per sputacchiarla.
Nello sport il culto della personalità è il campionismo. L’eroe è l’idolo. John
Kennedy faceva la morale attraverso i suoi «ritratti del coraggio»; lo sport trascina lo
sport non attraverso il gelido fascino dei tempi cronometrati ma con i volti dei
campioni sotto sforzo o, meglio, nell’attimo d’estasi dell’exploit che vince. Per il 90
per cento dei ragazzi fare sport è imitare, inseguire in maniera più o meno esplicita un
modello, un sogno, un paragone. Nei primi anni ’60 esisteva il settimanale «Il
campione», e mai testata sportiva fu più appropriata ai tempi. Quando Luisito Suarez
era regista dell’Inter, i negozi di abbigliamento sportivo vendevano uno sproposito di
maglie nerazzurre con il numero 10 sulla schiena, il numero di Suarez. Non contava il
suo ruolo, contava lui.
Il campione non è soltanto un sacco di bravura, una summa di gesti tecnici. Il
campione influenza anche i comportamenti, spesso a sua insaputa è agit-prop di una
mentalità, di un modo di concepire sport. Può stimolare o disgregare. É come se la
base dei praticanti lo delegasse a trasmettere una parola d’ordine. Non c’è Est o Ovest
che tenga: l’ucraino Valery Borzov inseriva nel suo autografo la civetteria del tempo
record dei suoi 100 metri piani; le ragazzine pagherebbero a peso d’oro il poster di
Wszola, il saltatore in alto polacco, così bello e così divo, arredato di chiome, collane,
anelli e cordicelle, eroe più borghese che proletario.
Dei grandi campioni il Potere tende ad appropriarsi, ma il campione è soprattutto del
pubblico. Spesso i campioni sono atleti espropriati; sono pedoni soltanto della propria
fatica. Tutto il resto, compresa la privacy, sono in usufrutto.
Il campione ha una caratteristica: che se arriva al crepuscolo senza essersi mai spento,
resta campione per saecula saeculorum. Anzi, il tempo ne corrobora le virtù. Più
invecchia, più ingrandisce.
La «Gazzetta» interroga ora i suoi lettori: chi è stato il più bravo straniero della Juve?
E i nomi di Hansen, Praest, Charles, Sivori, Del Sol, vengono tirati fuori dalla
memoria come in una pellicola di sole perle rare, quasi che gli anni avessero tolto il
sonoro ad ogni imperfezione.
Ma la vita del campione è fragile, precaria come un titolo a nove colonne, come lo
sventolo delle bandiere, come quel misteriosissimo sentimento fatto di tutto e di
niente che è la simpatia. Un campione è sempre esposto, di assodato ha poco. É più
facile vivere di rendita da intermedi che da vedette. Il tifo è una fede vorace, che va
alimentata. Più cieco è il tifo, più rischi di sentirti tradito, basti pensare allo scandalo
delle scommesse.
Il suo effetto più evidente è di aver rifilato nello sgabuzzino i volti, i personaggi, i
fornitori di materia prima per il campionismo di massa. La truffa ha squalificato una
pattuglia di giocatori e, insieme, abbassato bruscamente il fascino di tutti gli altri. É
stato lo scandalo d’élite in uno sport popolare e perciò la gente ha risposto con tripla
durezza. Pur assolvendo molti, ha condannato l’intero ambiente. La truffa ha reso lo
spettatore più vigile e soprattutto più incattivito perché, se pure era disposto a
perdonare qualche partita malsana, non gli va proprio giù di essere stato scippato del
campione. Gli è stato tolto il suo domenicale punto d’appoggio.
Lo sconcerto di questo scandalo è massimo anche perché ha mescolato le carte dei
vizi privati e delle pubbliche virtù. Nella nostra un po’ razzistica morale, nessuno
avrebbe fatto troppo caso al coinvolgimento di qualche giocatore di borgata o di
qualche logora stella. Un Albertosi che fuma, beve, mangia, fa le ore piccole e
viaggia senza slip avrebbe anzi finito con il rassicurare i benpensanti che, nello
scoprirlo anche scommettitore, avrebbero vista ratificata la tranquillizzante tesi della
«mela marcia», isolata e da buttare.
Il dramma è che nelle sentenze della truffa ci stanno anche i cocchi di mamma e di
sponsor, quel Paolo Rossi che lo stesso Gianni Rivera aveva due anni fa definito «il
mio unico erede». La presenza di Rossi e di altri insospettabili ha dato una mazzata al
campionato. Dopo che i campioni, borghesi o di borgata, di vita o di parrocchia, si
sono tutti bruciati peggio di bonzi per quattro lire di scommesse, mai il calcio italiano
ha toccato un livello tanto basso di immagine individuale.
Per dimenticare, questo è il momento del gruppo. Si pensa meno al campione e più
alla squadra anche se è evidente come l’esotismo degli stranieri abbia proprio un
compito di restaurazione. Già le società di calcio sono SpA; senza volti di richiamo
sarebbero veramente società anonime, in campo e fuori. Ci troveremmo ad aver a che
fare con un calcio alla tedesco-orientale, un calcio meramente fisico, di pezzi di
ricambio fatti in serie. Gli stranieri aiutano a ristampare i santini.
In un momento come questo, un po’ spaesato e scettico, anche i recenti esempi
dell’Olimpiade di Mosca servono a mettere a fuoco una figura diversa originale di
campione. Meno rozza, meno mitica, meno retorica. Più responsabile invece, più
professionale.
Un campione mai viziato e che, anzi, corre a volte il pericolo mortale di vedere
annichilita la propria felicità di uomo-atleta da una lunga interminabile fatica
preparatoria. Un campione più colto, un campione gradevole come Sara Simeoni o
contorto come Pietro Mennea, campioni gelosi come Coe – Ovett, campioni
intelligenti come quelli del basket, campioni sottoposti a tutte le tentazioni
dell’artificialità, ma campioni il più delle volte seri, moderni, informati. Più
professionisti e meno «gabbia dorata»; più allenamento che interviste. Soprattutto mai
come oggi consci di essere, nel bene e nel male, propagatori di spettacolo sportivo e
di progresso atletico.
Quello della personalità è un culto che non muore. Ma aggiorna gli altarini e le
giaculatorie: oggi il diavolo può avere la faccia di un bookmaker.