1983 Marzo 28 La Juve dorme per 4 minuti e i punti per la Roma sono 4

1983 marzo 28 – La Juve dorme per 4 minuti e i punti per la Roma sono 4

Avevo visto in mattinata gli affreschi di Paolo Uccello a S. Maria Novella, convinto che nulla di più
piacevolmente definitivo sarebbe potuto accadermi in giornata. Mancavo di fiuto storico: in un
pomeriggio di sole brillante, il prato carico di margherite, dentro un vento pieno di vitalità, ho visto
la Roma vincere lo scudetto 1983, il secondo dal lontano 1942: il terzo della capitale tenuto conto
della Lazio, che fu campione nel 1974.

Alla Roma è bastato uno stentato pareggio perché al resto ha graziosamente provveduto la Juve,
facendo nel derby un harakiri degno degno del Giappone dei Samurai. Atto finale teatralmente
coerente con l’annata, contraddistinta dallo sconcertante spreco della Juve, più che dalla marcia in
più della Roma. Basti pensare che, nonostante i quattro punti di vantaggio a cinque partite dalla
conclusione, il campionato della Roma registra “ meno due ” in media inglese: uno scudetto come si
deve esigerebbe almeno un’andatura da “ più 14”.

E’ stata una domenica emotiva, che al transistor faceva di Firenze e Torino un unico, dilatato campo
per due risultati siamesi. Dopo i gol di Massaro a Firenze e di Torrisi a Torino, la Roma aveva un
vantaggio di cinque punti. Alla fine, la differenza-scudetto è di 4, attraverso tutta una serie di fuochi
d’artificio. Il calcio dei potenti è migliore del calcio dei colpi di scena, ma quest’ultimo è il più
divertente che si conosca.

Una samba di Little Tony canta “ Roma all’attacco tu mi piaci un sacco”. Questa Roma a fior di
pelle, che si sentiva braccata, ha invece giocato a Firenze moscia, torpida, senza schiuma. Ha saputo
di aver praticamente vinto lo scudetto in una delle sue più pigre giornate, riuscendo a soffrire
persino contro una Fiorentina priva di entrambi gli stranieri ( Passarella squalificato e Bertoni
febbricitante) oltre che di Pecci, geometra di centrocampo. E si sa che già Galileo Galilei,
inconsapevole profeta di football, ammoniva che chi ignora la geometria cancella la verità.

Una squallida Fiorentina sorretta soltanto da Cuccureddu e Antognoni, ha perso dopo una mezz’ora
anche Massaro, l’unico vivo e vegeto in zona-gol. La Roma ha anche sfruttato un rigore che a me è
parso una mezza donazione, certamente in buona fede, di Luigi Agnolin, professore in Bassano,
arbitro in passato tenuto a lungo distante dalla Roma. Ma il calcio ha questo di buono: che i suoi
risultati spianano i gargarismi del “se” e del “ma” con la forza del bulldozer. Anche un magnanimo
rigore non fa più notizia tra le persone con l’animo sgombro. Dei fanatici del centimetro non è il
caso di darsi cura.

Firenze e Torino sono ormai un esempio. Resta la realtà di una Roma che per 25 partite ha giocato
non meglio della Juve, ma sempre su uno standard medio superiore a tutti. Il suo è lo scudetto dei
piccoli passi. Il suo merito è la regolarità: ed è merito pieno, relativo, ma pieno.

Da ieri sera Roma non è più il capoluogo del Lazio, bensì la capitale dello scudetto. La Roma è la
realtà che affiora, con addosso la segreta convinzione del destino, già da tre anni faticosamente
cercato. Sui Colli fatali c’è qualcosa di nuovo, non a caso la squadra gioca la cosiddetta “zona”,
figlia legittima dello svedese Nils Liedholm che non ha mai amato la prassi italiana di marcare
l’avversario piuttosto che di preoccuparlo tenendo palla.

Presieduta da un ligure e alienata da uno scandinavo: solida come il marmo in un mezzo russoa
quale Vierchowod; propensa al gol con il ligure Pruzzo; cucita in mezzo al campo dal viennese
Prohaska, questa Roma è più nordica di quanto non appaia dall’enfasi del campanilismo nostrano.

Nella città burocratica e curiale, affida poi la più privata e fascinosa delle iniziative di un asso
brasiliano, il Falcao scolpito alla regia come un biondo Davide di Donatello.

Faziosa e provinciale in certe goffaggini del suo tifo, la Roma 1983 non è nemmeno lontana parente
della Roma di un tempo che alimentò aneddoti a non finire e allegre serate di una Via Veneto
sommersa nei ricordi. Non è più la Roma di Lojacono e dei suoi lussuriosi fuori gioco; dello
scirocco e dei palazzinari; dei Conti senza più una lira e dei mediatori ricchi di tangenti. Questa è
una Roma organizzata, che ieri a Firenze ha portato almeno 13 mila persone. E’ una Roma che,
archiviando il passato, va a cercarseli i campioni, non a venderli. Roma vince lo scudetto anche
perché non è più una colonia.

E’ anzi una squadra fatta pezzo su pezzo dallo stesso tecnico, cui la presidenza Viola offrì
intelligentemente un contratto di tre anni: il quasi mezzo miliardo di quell’ingaggio appare oggi non
non una folla ma un investimento che ha dato il più altodei dividendi del calcio, lo scudetto.
Complessata da presunte angherie, frustrata da cronico vittimismo, spesso la Roma si è fatta più
stimare che amare. Identificando la Roma con la città della “sporca politica”, l’italiano medio ha
chiesto a questa squadra una fatica doppia nel rendersi simpatica. Ora lo scudetto è un’occasione
per farsi più italiana e meno romana.

La Juve si è fatta travolgere dal Torino quando sembrava padrona del derby e, soprattutto, a due soli
punti dalla Roma. Non ha colpevoli da cercare altrove, tutto dipendendo da se stesse oltre che da un
Torino che davvero porta nei suoi muscoli slanci misteriosi, voci che sembrano arrivare da chissà
dove, furori persino estranei a certa plumbea professionalità dell’oggi.

Da ieri sera la Juve può badare all’Europa, lo scudetto 1983 non le appartiene più. Per la Juve dei
20 scudetti, la sconfitta è soltanto una pausa del vincere, mentre, d’ora in avanti, la Roma proverà a
far si che la vittoria non sia mera pausa del perdere.

Forza Roma, forza lupi, so finiti i tempi cupi! Firenze, città dell’arte, le ha consegnato il primato più
popolare d’Italia. La Juve non ringrazia, abbozza.