1986 novembre 30 Una chiesa non più romana
1986 novembre 30 – Una chiesa non più romana
In Vaticano ricordano quando Roncalli confidò: «Se una volta il vecchio Papa volesse andare a
Venezia a rivedere la sua diocesi, un posto in aereo si troverebbe». Papa Giovanni uscì 140 volte per le
strade di Roma, ma l’aereo non lo prese mai. Sapeva, e lo profetizzò, che altri avrebbero reso
ecumenico il pontificato, andando come l’apostolo Paolo nel mondo.
«Il Papa non può restare chiuso come un satrapo persiano nel suo castello», predicava don Giuseppe De
Luca, amico di Papini, Prezzolini e Manzù, prete-letterato che tenne un carteggio con Togliatti. Se
porta una parola universale, la Chiesa ha necessità di dimenticare il Tevere.
Fu Montini a prendere l’aereo; è Wojtyla che ha sbiadito della Chiesa l’aggettivo «romana». Domani
notte il Papa rientra dal suo trentaduesimo viaggio all’estero; in otto anni ha visitato tutti i continenti e
già programmato di recarsi in Argentina e Cile. Nessun uomo al mondo ha avuto un contatto di massa
nemmeno paragonabile.
Il Papa straniero guarda sempre meno agli italiani e sempre di più agli uomini. Nel tempo delle paure
planetarie, della cooperazione nelle sfide, dell’informazione tecnologica che vanifica le frontiere.
Wojtyla ha scelto il fuso orario quale parabola del papato che viene dall’Est, da un Paese da sempre
emblema delle divisioni della storia.
Il Papa polacco parla sette lingue; ricevette Gromiko senza l’interprete. Chi dal mondo giunge a Roma
sente che quel balcone non è più un privilegio italiano, né curiale né latino. Una rivoluzione: il Papa
che viaggia, il Papa poliglotta sono la stessa cosa.
Rispondendo alla domanda di un bambino di Melbourne che gli chiedeva «come fai a vivere in
Vaticano con tutte le stanze che ci sono?», Wojtyula ha risposto: «Non lo so, non m’interessano molto
quelle stanze». Gli interessano molto di più gli incontri, spesso vere e proprie rimozioni di tabù
secolari, con gli ebrei nella sinagoga, con i protestanti in Svizzera, con gli anglicani in Inghilterra, con
l’Onu delle religioni ad Assisi.
Abituati a una visione spesso provinciale della Chiesa («i nostri svagati occhi romani» li definisce
Arcangelo Paglialunga) non siamo sempre pronti a capire fino in fondo il papa con vangelo e
passaporto. In realtà, se ecumenico dev’essere, non può più fermarsi a metà strada: la Chiesa da
esportazione sarà il segno di un pontificato che, nell’innovare, non ripudia nulla del messaggio
cristiano, anzi lo riporta alla coerenza della missione «urbi et orbi».
Nel mondo delle immagini e della simultanea tra i popoli, Wojtyla fa spettacolo della Provvidenza.
Aggiunge una voce di pace alla coscienza laica del bene comune: quella ad esempio di un Carlo Rubbia
che, a dispetto della violenza e dell’incultura, fonde scienza e speranza come in una reazione pulita di
laboratorio.
Contro i profeti di morte, l’umanità ha bisogno di predicatori di vita. Non chiusi come satrapi in chiese
o bunker, ma a spasso per il mondo.
novembre 1986