1988 febbraio 7 La politica e Venezia
1988 febbraio 7 – La politica e Venezia
Quattro mesi è durata la zuffa della legge finanziaria; da quattro mesi Venezia non riesce a venir fuori
dal pantano della crisi. Lo Stato e una Città, l’economia di tutti e l’amministrazione di un comune: due
situazioni che non hanno proprio nulla da spartire tra loro, permettono conclusioni simultanee sulla
prostrazione della Politica. Denunciare non basta più, scandalizzarsi nemmeno. Il sistema assorbe e
svirilizza l’autocritica; la gestisce quale sottoprodotto interno non come alternativa. Giorno per giorno
assistiamo all’esercizio della partitocrazia di più basso profilo e, contestualmente, alla flagellazione che
di tale esercizio la stessa partitocrazia invoca. Più si aggrappano al potere e più promettono servizio;
più sfasciano governi e più propongono riforme. Quando Nilde Jotti ha definito «inghippo» la
finanziaria, la Camera le ha tributato un grande applauso. Un leader quale De Mita ha paragonato il
dibattito di questi giorni a un film di Bunuel, il regista spagnolo noto per la sua arte torbida, surreale,
barocca. E uno dei tanti deputati di prima nomina, il pordenonese Agrusti, ha concluso: «Questo
Parlamento non merita il voto segreto». Tutto si potrà dire della classe politica tranne che non si renda
conto dello scollamento. Ne prende spregiudicatamente atto, ma non sa porvi rimedio. Mai come
adesso è prigioniera di un labirinto costruito con le proprie mani e del quale ha dimenticato l’uscita.
Nel sistema dei partiti si insinua un partito di complemento: quello degli interessi, delle lobbies, dei
gruppi di pressione, di chi ha finanziato campagne elettorali e chiede la ricevuta di ritorno. C’è sempre
un partito in più, dei franchi tiratori, degli aspiranti ministri, degli assessori, delle elezioni anticipate. Il
male non sta nei partiti in sé, ma nella loro parcellizzazione. Magari fossero spa di gestione; invece
funzionano come confraternite. A Roma si può avere un presidente del consiglio Dc che paga l’attesa
del congresso democristiano più dell’opposizione comunista. A Venezia ci può essere un sindaco di
pentapartito che rimane senza giunta perché, dieci giorni dopo quel voto, gli vengono a mancare due
partiti su cinque. Seneca immaginava l’umanità come una volta che si regge perché ciascuno è una
pietra; ma qui non si porgono le pietre, si tirano. Dopo un’ennesima, inconcludente notte in municipio a
Venezia, Bruno Visentini ha sorriso con una battuta sarcastica: «Siamo riconvocati per giovedì grasso,
ci offriranno le frittelle». Da offrire resta infatti poco o nulla, una giunta di sinistra fino al 1990 o le
elezioni anticipate. Il quadripartito a guida socialista è perso nella notte dei tempi; il pentapartito a
guida democristiana ha dato forfait. Quando Visentini ha proposto una soluzione in grado di rompere
gli schemi della spartizione per simboli e correnti, è scattato un sospetto tenace quanto l’istinto di
conservazione e appena mitigato dall’unanime rispetto per il curriculum del «professore». Per un
pretesto o per l’altro, sono stati bocciati il «sindaco-manager» Laroni, il presidente del Pri Visentini, il
senatore Degan. Alla distribuzione dei presunti assessorati è stato riservato ogni minuto a disposizione;
ai programmi il tempo residuale. Nel Veneto che si trasforma in metropoli, Venezia accentua la sua
marginalità per omissione di ruolo e di scelte. Forze anche elettoralmente propulsive, come i socialisti,
vi si frammentano fino a esprimere quattro posizioni nella seduta dedicata a ratificare la formazione
della giunta: l’on. Vazzoler dichiara morto il pentapartito, l’ex sindaco Laroni non lo ripudia, il
capogruppo Pontel domanda prove di credibilità, il sen. Rigo non rinuncia a porre ancora oggi sul
tappeto la candidatura super partes di Visentini. Gli stessi repubblicani di Venezia hanno incontrato
molta fatica a spiegare perché Degan fosse credibile come sindaco e non lo fosse più quando affermava
di sottoscrivere proprio il programma repubblicano. È forse sintomatico che Visentini abbia assistito
senza intervenire ma il problema di fondo è un altro. Nel gioco perverso dei personalismi e del
sottogoverno, nessuno si fida oramai di nessuno. Più del Consiglio conta il retrobottega, dove i patti
sono mezzi accordi, dove le alleanze non reggono al voto segreto, dove i programmi sono contenitori
buoni per tutti gli usi.
Venezia è un caso nazionale perché nessuno oggi fotografa meglio ciò che non deve essere la Politica.
7 febbraio 1988