1988 luglio 05 Un colpo di canna
1988 luglio 05 – Un colpo di canna
Dopo la strage dell’airbus abbattuto dal missile americano
Khomeini minaccia: «Colpiremo gli Usa dovunque e con qualsiasi mezzo» – tensione altissima nel
Golfo Persico
Nel cuore di Washington due interminabili lastre di marmo nero portano incisi i 58.132 nomi degli
americani morti in Vietnam durante la «sporca guerra». Lo chiamano The Wall, il muro, e il giornalista
Vittorio Zucconi vi ha riflettuto sopra per chiudere un suo brillante libro uscito da pochi giorni, «Si fa
presto a dire America».
Scrive Zucconi: «E’ forse l’unico monumento di guerra costruito verso il basso, e non verso l’alto.
Questa è l’America che amo: l’unica potenza nella storia che abbia la grandezza di celebrare anche i
propri errori». La stessa America fa oggi i conti di una terribile contraddizione: ha premuto il pulsante
di una strage civile in acque internazionali la «libertà di navigazione», non soltanto sua. Ha sparato per
paura, e la più segreta delle tecnologie l’ha aiutata ad avere paura.
Un paio d’anni fa, l’America alzò gli occhi al cielo e vide, nella grande nuvola bianca del Challenger
disintegrato, spezzarsi un mito della tecnica, il prestigio della Nasa, la reputazione di Houston,
l’ambizione di luna, il prolungamento dell’ultima corsa del sogno americano verso il West. Oggi un
altro giallo dell’éra dei computers affida agli Usa l’efferato compito di dirci che tutto può accadere
senza che nessuno riesca a spiegare nulla. Le macchine sembrano a volte più stressate dell’uomo.
L’airbus iraniano esemplifica con più crudezza di altre tragedie la nostra condizione di non-pace, non-
guerra. L’illusione di poter separare rotte militari e civili, di convivere all’infinito con l’alta tensione, di
selezionare infallibilmente i bersagli mentre la vita quotidiana si confonde sui radar con le foschie di
una guerra mai dichiarata e di una pace mai avvicinata. Quell’airbus carico di gente comune è un altro
monumento alla vulnerabilità del nostro destino; in ciò così uguale a quello del Dc 9 di Ustica, buttato
giù in esercitazione, tra qualche identificazione mancata, per qualche incerto corridoio, su un orizzonte
ignaro di tutto, dove nemmeno l’occhio tecnologico sa veder giusto o capire.
Esiste tutta una letteratura sulla possibilità che la terza guerra mondiale – l’ultima- scoppi per errore.
La strage del Golfo ha spiegato benissimo come ciò può accadere quando la non-pace ha il missile in
canna, guidato dalla ineluttabile dottrina del chi si fida è perduto.
Una logica spietata determina allora uomini e automatismi. Un anno fa, nella stessa area, un missile
lanciato per errore da un jet iracheno provocò 37 morti su una fregata statunitense: chi aveva consentito
all’aereo di avvicinarsi commise un errore imperdonabile, agli occhi dei militari più incoerente dello
scambio di un inerme airbus per un aggressore. La fusione tra guerra e scienza ha polverizzato i tempi
di reazione dell’uomo: decidere conta più che scegliere, mentre le circostanze finiscono con
l’impadronirsi sia dell’uomo che del computer.
Sono cose che sapevamo, ma la mattanza dell’airbus dimostra che è molto peggio del temuto. Solo la
pace non sbaglia mai un bersaglio.
luglio 1988