1989 ottobre 8 Quale dignità
1989 ottobre 8 – Quale dignità
Leader di una Dc friulana tradizionalmente morotea e di sinistra, risoluto presidente della giunta del
Friuli-Venezia Giulia, Adriano Biasutti teme per la «specialità» che la Costituzione e lo Stato
riconoscano alla seconda regione del Nordest. I suoi timori sono di due tipo: l’uno finanziario, l’altro
politico. Il primo riguarda il taglio di qualche centinaio di miliardi alla Regione nell’ambito della
manovra economica del governo; il secondo un sospetto complotto veneto per riequilibrare il
differenziale tra regioni a statuto speciale (appunto il Friuli-Venezia Giulia) e quelle a statuto ordinario
(appunto il Veneto) nei trasferimenti da parte dello Stato. In parole povere, Biasutti ritiene che i soldi in
meno nascondano una prima caduta di ruolo e di potere locale. Anche se è più che legittimo che un
amministratore si preoccupi di non perdere incentivi economici o spazi istituzionali, sembra giunto il
momento di una riflessione più coordinata all’interno (con il Nordest) e all’esterno (con l’Est,
l’Adriatico, in sostanza la comunità di Alpe-Adria della quale proprio il Friuli-Venezia Giulia fu primo
motore). In quest’area, ieri militarmente oggi commercialmente strategica, tutto sta storicamente
precipitando, come puntualizza anche il ministro degli Esteri nell’intervista al nostro giornale. E
obbliga noi tutti a un nuovo impegno contro il provincialismo di mezza tacca. In particolare il Friuli-
Venezia Giulia ha più che mai la utilissima occasione di riverniciare la sua «specialità». A cominciare
dal superamento del risibile dualismo fra Udine e Trieste. A un interessante incontro, organizzato
giorni fa a Tarvisio dal circolo culturale «Futura», ci siamo resi conto che la stucchevole questione
rimane ancora aperta, petulante nei suoi piccoli egoismi di contrada, costosa per il raddoppio localistico
di identiche funzioni pubbliche, politicamente esiziale per una regione con meno di un terzo degli
abitanti del Veneto. Continuare a sollecitare questi residuati bellici, rappresenta il vero autolesionismo
regionale, una disputa che non porta da nessuna parte e che, anzi, rallenta il decollo pieno della
«specialità». Basterebbe rifarsi culturalmente allo scrittore friulano Carlo Sgorlon quando ricordò che
Trieste fu la prima città a capire il viennese Freud e che il Friuli fu la Mitteleuropa dei contadini, che
solidarizzava naturalmente con gli sloveni, gli slovacchi, i carinziani. Insieme, non separate in casa,
Trieste e Udine sono tagliate su misura per rinnovare in un’Europa senza cortine e frontiere quella
vocazione allo scambio. Ma come aprirsi al mondo che cambia se non si riesce a superare nemmeno
all’interno la diffidenza tra due realtà, il Friuli e Trieste, che sembrano invece fatte apposta per
completarsi nella diversità? Ma non solo. Anche Veneto e Friuli-Venezia Giulia hanno tutto da
guadagnare collaborando e tutto da perdere divergendo. Qui Biasutti ha ragione: in termini di
«complotto» o di rapporti di puro potere contrattuale, a rimetterci più del Veneto sarebbe senza dubbio
il Friuli-Venezia Giulia. Giuseppe Mazzariol sosteneva di recente che il Veneto moderno nacque con i
cinquant’anni di dominazione austriaca; è dopo quel pezzo di Ottocento che gli emigranti cominciarono
a dire «sono veneto», e non più padovano, veneziano, vicentino o veronese. «La fine della Repubblica
veneta, la conclusione di una secolare dominanza della città di San Marco sui centri, piccoli e grandi,
dello Stato – scriveva l’intellettuale veneziano – può oggi essere veduta come il fondamento di
garanzia di un’identità paritetica fra le città del Veneto, come l’inaugurazione di una stagione di pari
dignità». Da un bel pezzo non è più in questione la pari dignità, nemmeno nell’ultimo angolo del
Veneto del Friuli-Venezia Giulia. Oggi ci giochiamo una dignità infinitamente più creativa, di
cooperazione e di comprensione, senza la quale ci ritroveremo tutti più soli e impari ai tempi.
8 ottobre 1989