1991 dicembre 28 Più onesti. Intervista a Gianni De Michelis
Lo sfascio, la corruzione, i comunisti, gli imprenditori. Bossi, Cossiga,
Segni… tutta l’Italia che cambia.
Testata: GAZZETTINO
Edizione: PG
Pagina: 4
Data: 28/12/1991
Autore: Giorgio Lago
Tipo: INTERVISTE
Argomento:
Persone: DE MICHELIS GIANNI
Didascalia:
Descrizione:
Titolo: “PIÙ ONESTI!” Intervista a Gianni De Michelis
di Giorgio Lago
Parliamo di sfascio. «Io sostengo che lo sfascio non c’è! Si sa che è una situazione che ha molti
aspetti difficili, ma questa categoria dell’Italia irreversibilmente, o quasi irreversibilmente condannata,
non corrisponde al vero. Per due ragioni. Primo perché una serie di difficoltà che abbiamo, che sono
anche grosse, non sono italiane ma europee. Questo è un punto su cui insisto molto». In che senso?
«Molti dei fenomeni da cui deduciamo la teoria dello sfascio sono fenomeni in questo momento
presenti in tutti i Paesi europei. Per risultati elettorali antisistemici vengono citati quelli di Brescia, ma
qui è uno dei punti in cui ci sentiamo convergenti con l’Europa, non divergenti!» Sarebbe? «Se
prendiamo i risultati elettorali in Europa, sia comunitaria che non comunitaria e comunque occidentale,
dalla Svezia alla Svizzera, dalla Germania all’Austria al Belgio, è un fenomeno assolutamente
omogeneo. La protesta che io chiamo antisistemica e non ideologica è un fenomeno cresciuto in questi
ultimi mesi in tutta Europa. Ha nomi diversi, si chiama blocco fiammingo” nella Fiandra, si chiama
“libernazionale” in austria, si chiamano “neo nazisti” a Brema, si chiama “Partito degli automobilisti” a
Zurigo o “Lega” nel Ticino, dove guarda caso pochi giorni prima di Brescia una lega ticinese ha preso
il 24 per cento, cioè la stessa situazione di Brescia, e senza che a Lugano o Locarno ci fosse uno solo
dei fenomeni con cui si è spiegato il voto di Brescia. E la Svezia, paese per eccellenza stabile e ben
governato, oggi ha un governo di minoranza…». La malattia del secolo Insisto. La peculiarità italiana
è un disagio generalizzato, rancoroso. «C’è dappertutto, è un disagio diffuso che ha una spiegazione
molto semplice. La fine dell’ordine basato sulla contrapposizione tra Est e Ovest, tra comunismo e
democrazia, ha creato oltre che delle grandi opportunità anche una grande preoccupazione, incertezza,
insicurezza, malessere. Una grande “malaise”, io la chiamo la grande “malaise europea” della fine del
secolo, che si diffonde e che colpisce tutti, quindi anche l’Italia, perché è un paese europeo». E il
secondo elemento? «In questo malessere c’è anche una difficoltà di chiunque governi, a prescindere
persino se governa male o bene. Mitterrand in Francia, nonostante tutti dicano che Andreotti è un
disastro». Insomma, un idillio! «No, ma ci vuole un minimo di buonsenso nel giudicare le divergenze
italiane dall’Europa: bisogna misurare sulla derivata, cioè sulla tendenza. C’è la divergenza
dell’inflazione, che oggi è una differenza di due punti, ma qualche anno fa di 10 o di 15. Il disavanzo
pubblico certo è un grosso problema, ma dal punto di vista del flusso ci sono anche segnali positivi. E
sempre per l’inflazione, gli ultimissimi dati dicono che è calata di un punto in sei mesi, non poco. Detto
tutto questo, io non voglio minimizzare i problemi: credo di conoscere come pochi le questioni che
l’Italia dovrà affrontare nei prossimi anni per se stessa e per rimanere al passo con l’Europa, però nego
che sia legittima questa specie di enfatizzazione del malessere, del chiacchiericcio». Confusione
polacca Eppure, anche categorie abituate a razionalizzare le cose, gli imprenditori per esempio, sono
in prima linea nella protesta soprattutto per i disservizi e le non riforme. «Io non sono tra quelli che
ritengono questa classe politica la migliore possibile; anzi è molto mediocre! Anche del mio partito
riconosco tutti i difetti, né è immune da gravi critiche. Però queste due ragioni mi sembrano delle scuse
o, per alcuni che lo fanno scientemente, una manovra politica». Può chiarire? «Ceti interi che non
hanno pagato le tasse per anni e decenni, improvvisamente dicono che non vogliono più pagarle;
protestano contro un tartassamento che non c’è mai stato! Allora, l’unica vera caratteristica specifica
italiana è che l’Italia aveva nel suo sistema economico e sociale un terzo di comunisti. Questo è il vero
punto, cioè noi abbiamo un terzo di confusione polacca! Da quarant’anni, questo ordine era basato
anche sulla contrapposizionecompromesso con un terzo di forze economicosociali e culturali che
rispondevano a un partito che, sia pure calante nel tempo, faceva parte dell’altra Europa, era un pezzo
dell’Europa dell’Est. Questa Italia dell’Est se n’è andata, si è dissolta come si è dissolta Mosca, ma si è
dissolta con le stesse caratteristiche di confusione e di disordine. Inevitabilmente». Perché dunque, i
politici se la prendono proprio con le forze che denunciano con più vigore lo sfascio, non per
distruggere ma per ricostruire? «Sono critico in questo senso: una critica di fondo che faccio oggi a
noi stessi, all’Italia, è l’assenza di un ceto dirigente con coscienza di essere tale. Nel secondo
dopoguerra ha funzionato un establishment che è riuscito non solo a fare la Costituzione, ma ad evitare
all’Italia la guerra civile e uno scontro profondissimo. Cioè persone, o politici, o interessi economici
molto diversi tra loro, per circa vent’anni hanno formato l’establishment di quell’Italia lì, meno ricca,
meno forte, meno di serie A. Invece, dal ’75 in poi, quando quell’equilibrio per ragioni varie è finito,
non siamo più riusciti a ricostruire un establishment. E questa è una colpa grossa dei politici
ovviamente, che si spiega con un partito comunista che perdeva di ruolo e di peso, però rimaneva
attaccato al potere; ma è anche colpa di imprenditori, di finanzieri, di intellettuali, di uomini di cultura.
Gli industriali per definizione devono essere interessati all’establishment, perché non si possono gestire
aziende in modo ordinato in un sistema Paese sfasciato. Gli industriali per definizione non dovrebbero
raccogliere firme per i referendum e giocare allo sfascio, perché alla fine saranno i primi che
pagheranno, pagheranno loro e le loro aziende». Con una battuta semiseria, Berlusconi ha detto che,
se accetta l’offerta di Bossi di fare il segretario della Lega, prenderebbe il 65 per cento dei voti! «Ho
parlato con Berlusconi, non è questo ciò che pensa. Non starà da quella parte, credo che sarà tra i primi
che risponderà a un appello alla ragione degli imprenditori». Un altro spauracchio A cominciare da
Andreotti, De Mita, Gava, non è che dopo il fattore “comunismo” si sta minacciando per ragioni
elettorali il fattore “autoritarismo”? «No, semmai constato che quando c’è una situazione di
confusione c’è sempre qualcuno che punta sul disordine, qualcuno che specula. Ma l’aspetto principale
è un altro: tutta questa propaganda sfascista indebolisce drammaticamente l’Italia molto di più di
quanto non la indeboliscano i difetti che pure ci sono nel momento in cui parte questa grande
scommessa dell’Europa. Questo è un punto pericoloso, contro gli interessi del Paese; quindi, siccome
molti di quelli che protestano dicono di farlo nell’interesse del Paese, io nego questa coincidenza, dico
che lo fanno contro l’interesse del Paese, coscientemente o incoscientemente». In Europa 3 partiti Si
voterà ad aprile. Un ministro si rivolge agli elettori chiedendo di votare per i partiti tradizionali: con
quali argomenti? «La risposta è: perché non c’è modo di governare l’Italia nei cinque anni prossimi al
di fuori dei partiti o di certi partiti. Quello che dovrei spiegare è che, siccome siamo entrati nella fase
dell’integrazione politica dell’Europa, i partiti non solo non conteranno di meno, ma conteranno di più.
I prossimi vent’anni saranno gli anni dei partiti europei. Per essere più precisi, solo tre partiti
conteranno, tre famiglie di partiti: quella democraticocristiana moderata, dei conservatori moderati, non
thatcheriani; quella dei liberaldemocratici; e quella dei socialisti o socialistidemocratici. Non c’è altro
modo. Vogliamo essere europei? Dobbiamo avere dei buoni partiti di questo tipo. Avremo invece
Leghe, avremo Reti, avremo altre forme di consenso? Allora saremo divergenti dall’Europa, e ci
costerà addirittura più che essere divergenti sul disavanzo pubblico o sull’inflazione. Quindi sarà un
anno terribile. Siccome io penso che la maggioranza degli italiani voglia invece stare nell’Europa,
dovremo lavorare nei prossimi tre mesi per chiarire queste cose: molti capiranno e non voteranno più
Rete o Lega, fenomeni assolutamente provinciali e non europei». Che idea Bossi! Che cosa teme
delle Leghe? «Delle Leghe non mi fa paura nulla se non il fatto contingente che, nella prossima
legislatura (non più di quella…), renderanno meno facilmente governabile l’Italia. Credo che nessuno
abbia interesse a vedere un Paese meno governabile, come lo sarebbe con una forte presenza di voti
puramente di protesta. L’idea che Bossi assieme ai Rocchetta possa guidare l’Italia, non dà certo
sicurezza per il futuro del nostro Paese».
******* PEZZO ASSOCIATO AL PRECEDENTE *******
Non le piace nemmeno Segni? «Non è che non mi piaccia, anzi è un mio amico personale. È che non
credo alla modifica del sistema a colpi di referendum: noi abbiamo bisogno di riforme razionali e
realistiche». …Le quali non si fanno nemmeno a spararvi cannonate?! «Non sono di quelli che
demonizzano i referendum, però i referendum fatti in Italia sono solo in negativo. Forse varrebbe la
pena che Segni si battesse assieme ai socialisti per chiedere i referendum propositivi, più utili. Né credo
molto, lo dico onestamente, al fatto che i salotti milanesi oggi inneggino a Segni come inneggiavano a
Capanna vent’anni fa…». Assolvo Cossiga «Il più riformista sembra Cossiga. Credo di potermi
considerare un amico di Cossiga. Ritengo si possa opinare su molte cose che ha detto e sulla forma,
però ha dato voce a delle esigenze vere che la gente sente. Quando tireremo le somme di questi mesi,
penso che le azioni di Cossiga le riterremo complessivamente positive». Sull’ultimo numero
dell’Espresso, lo storico Lucio Colletti, che pur è vicino al garofano, critica Craxi di immobilismo. Tra
crisi dei post comunisti e spinte centrifughe della Dc, non era questa la grande occasione del Psi
riformista? «Il problema è che l’Italia deve essere governata e noi abbiamo avuto un momento di
sbandamento. In questo momento di sbandamento, quando è crollato quel terzo polacco dell’Italia, per
un attimo ci siamo lasciati prendere dall’idea di confusi alternativismi. Invece, l’Italia sarà governata
nei prossimi anni solo da un’intesa tra democristiani e socialisti: mi pare assolutamente evidente». Già
sepolta ogni alternativa? «Tutta l’Europa sarà governata da intese di centrosinistra. La Commissione
europea, il Consiglio dei ministri, il Parlamento europeo saranno tutti espressi sotto forma di
compromessi. Lo schema delle alternative è finito negli anni Sessanta. Ed è finito peraltro per ragioni
storiche, per ragioni sociali. Non c’è più. Forse ritornerà fra dieci o vent’anni, ma adesso non c’è più!».
Lo sa anche Craxi? «Ho constatato in queste ultime settimane con soddisfazione che tutto il partito e
Craxi in testa hanno capito che i socialisti, se hanno una possibilità di affermare un modello
riformatore, è proponendosi più decisamente, più seriamente e più credibilmente come forza di
governo. Non invece, come abbiamo fatto in parte, come una specie di forza che oscilla, con un piede
dentro e un piede fuori. A questo non ci crede più nessuno. E poi, alternativa con chi? Con un Pds in
perdita costante, con le Reti, o con i radicali che non si presentano più, o con Rifondazione comunista?!
La proposta di Occhetto contempla… una coalizione di otto partiti!». Contro la corruzione
D’accordo, ma dove nasce la credibilità? «È credibile un disegno centrato sulla persona di Craxi,
perché Craxi ha dimostrato di saper governare: per tre o quattro anni ha dimostrato di avere una mano
salda sul timone e di reggere la barca nei momenti difficili. Va aggiunta un’altra questione». Di che
tipo? «Non sono mai stato un moralista, non ho mai creduto a queste discussioni pseudo moralistiche
o pseudo morali sui politici che rubano o non rubano, però il problema della credibilità sul piano della
correttezza sta effettivamente diventando oggi un problema della credibilità sul piano della correttezza
sta effettivamente diventando oggi un problema centrale, più di quanto non fosse ieri». È una scoperta
che ci fa molto piacere. «Non perché oggi la corruzione sia maggiore che un anno o due anni fa.
Nell’Italia in equilibrio tra Ovest ed Est, ampi ceti ritenevano la corruzione come una specie di tassa
impropria per il mantenimento dell’equilibrio. Negli ultimi due anni, la ragione “implicita” della tassa
impropria non c’è più, quindi la gente non ne vede più nessuna giustificazione, s’è stufata. Io ho posto
questo problema per il nostro partito a Venezia; lo riproporrò a gennaio in modo formale. Non so che
tipo di soluzione trovare ma penso che dovremo cercare, in attesa di norme di legge nella prossima
legislatura, di inventarci almeno a livello regionale un sorta di ombudsman socialista, cioè quattro
cinque persone che si prendano la responsabilità, di fare da garanti. Non per fare delle denunce, non per
invitare alla delazione, ma per denunciare le situazioni che poi consentono la corruzione, in una giunta,
in un’Usl, in un Comune, dove alla fine le procedure vengono usate semplicemente come un modo per
mettere il cittadino o l’imprenditore con le spalle al muro. Ognuno nomini i suoi ombudsmen e cominci
veramente, pagando anche qualche prezzo, anche correndo qualche rischio». Noi ne abbiamo parlato
con durezza a proposito del caso Pandolfo. «Avete fatto benissimo, ma è questione di accenti e di
misura, se no alla fine la gente ritiene che la democrazia non funzioni più. Tra l’altro, conoscendo
l’Italia, non è vero soprattutto nel Veneto. Chi sbaglia paga, e vada fuori dai piedi. Ma da questo
generalizzare, dipingere cioè il Veneto con certe tinte, non è sostenibile. Il grosso degli imprenditori
sono onesti, però lo confesso questo punto dell’onestà ho sempre pensato dovesse essere tenuto fuori.
Oggi sento al contrario che è punto che porta acqua al malessere, e siccome abbiamo bisogno di
combattere il pessimismo, e la logica della diserzione, bisogna che facciamo uno sforzo straordinario.
Bisogna essere più onesti del solito: questo è il passaggio che va compiuto, e penso che il Nordest
possa fare da esempio per l’Italia». Nordest leader A nostro parere, il Nordest avrà un ruolo sempre
più forte. Che ne pensa De Michelis, anche nello specifico del suo ministero? «Mentre sono
totalmente dissenziente, e considero farneticanti i Bossi che vogliono dividere l’Italia in tre o quattro
repubbliche, so però che l’Europa sarà un’Europa delle regioni! L’Europa avrà un processo parallelo di
integrazione e di evoluzione: cioè, mentre crescerà l’integrazione sovranazionale, sarà obbligatorio
sviluppare soggetti sottonazionali regionali. Perché sarà proprio il modo di rendere accettabile
l’integrazione senza che sembri una specie di dirigismo verticistico inaccettabile. Bisognerà decentrare
certe decisioni da Roma verso il basso; i lander tedeschi conteranno di più e faranno da modello; la
Francia si regionalizzerà come non ha mai fatto; la Spagna dovrà convivere con le sue autonomie. Non
ho dubbi, e allora, in un contesto di regionalizzazione, credo che il Nordest possa costituire una regione
in senso lato molto importante per l’Italia e per l’Europa». Una super regione dunque? «Il Nordest
dell’Italia, in cui includo facilmente anche l’Emilia, negli anni Settanta e Ottanta ha maturato
caratteristiche di sviluppo, culturale, sociale ed economico, di tale solidità da mettersi nella privilegiata
posizione di regione forte dell’Italia. Quindi il ragionamento è estremamente valido e vitale. Se si
vuol dare un contributo all’Italia e all’Europa, lo si può dare da qui. Ecco perché io stesso conto nei
prossimi anni di essere sempre più un politico del Nordest. Certo, non voglio dire che non sento più
l’Italia come dimensione, però posso fare bene il politico italiano, e posso far bene il politico italiano a
livello europeo nella misura in cui rappresento quest’area. Semmai sfido i politici e il ceto dirigente
delle altre subaree italiane, a fare la stessa cosa, dal nord al sud. Il Nordest non è più periferico; siamo
veramente una delle zone che possono dare un contributo maggiore da ogni punto di vista». Ci
contiamo, ministro.
dicembre 1991