1992 gennaio 16 Senza ipocrisie
1992 gennaio 16 – Senza ipocrisie
De Michelis era stato anche più duro. “Gli industriali – ci aveva detto – giocano allo sfascio, firmano
i referendum, sputano sul piatto dove hanno mangiato”. Il Ministro degli Esteri è il più americano dei
socialisti; ha nel sangue la cultura protestante dell’establishment, cioè della classe dirigente che
garantisca il patto di potere e di responsabilità per dominare i processi sia politici che economici. In
questo senso, De Michelis vive la reazione degli imprenditori contro la partitocrazia come un
tradimento, una miopia, un affare mancato per tutti.
Anche se altrettanto polemica, la linea di Andreotti sembra molto più sottile e carica di implicazioni.
Nel momento in cui i ceti imprenditoriali guardano all’opposizione del Pri e fuggono addirittura verso
le Leghe o caricano di valenze alternative i referendum e, in ogni caso, marcano strettissimi i partiti
perché attuino le riforme, Andreotti scava nel profondo di una mai sopita cultura anti-industriale. Così
forte nel nostro Paese, più che per l’influenza del Pci, per le radici cattoliche, popolari,
cooperativistiche, solidaristiche, anche oggi anticapitalistiche, legate da Leone XIII a Wojtyla al
grande filone della dottrina socialista cristiana, incisiva sia in fabbrica che nell’ancestrale anima
contadina mai del tutto rimossa dalla modernizzazione e dallo sviluppo.
Andreotti ha buon gioco anche perché nel nostro Paese l’imprenditoria moderna gode di una
giovanissima tradizione, ferma com’era in un passato non remoto alla concezione padronale. Una
concezione che anche la migliore coscienza liberale, vedi Luigi Einaudi, metteva sotto accusa a
vantaggio di un’economia senza sfruttati e senza protezionismi.
Con ulteriore abilità, Andreotti divide il mondo imprenditoriale in buoni e cattivi. Da una parte i
grandi gruppi che “sputano sul piatto” delle commesse statali, delle leggi compiacenti, della cassa
integrazione a colpi di decine di migliaia di lavoratori; dall’altra la piccola imprenditoria che
Andreotti, eletto al Parlamento europeo con oltre mezzo milione di voti nel Nordest, ha l’aria di
conoscere benissimo.
Le elezioni sono alle porte, cariche di incognite. Andreotti la sua campagna l’ha già aperta invadendo
senza indugio territori lasciati quasi incolti dai post- comunisti, presentandosi inoltre come il
difensore dell’iniziativa pubblica in economia e del monopolio dei partiti proprio quando nel Sud
massacrato dal crimine cresce, per disperazione e/o per calcolo, la spinta al clientelismo, alla
protezione, allo Stato dispensatore se non di sicurezza almeno di risorse.
Dal 1972 ad oggi, Andreotti ha guidato sei governi, per un totale di 2136 giorni a Palazzo Chigi.
Nessuno meglio di lui sa che è sepolta la stagione delle vecchie, consolidate alleanze tra politica e
produttori. Tutto si sta tumultuosamente riposizionando; alla vigilia dello scioglimento del
Parlamento più conservatore e meno riformista della storia repubblicana, Andreotti ha toccato nervi
scoperti e inaugurato inedite rese dei conti sullo sfondo dello sfascio.
Forse, è meglio così. Portare tutto alla luce, senza mediazioni, veli e reciproche ipocrisie.