1992 gennaio 5 Prostituire Venezia
1992 gennaio 5 – Prostituire Venezia
Siccome Venezia esorbita di idee, progetti, comitatoni, finanziamenti a medio e lungo termine ma le
cose non camminano né con il piglio né con la speditezza da anni invocati, non resta che consegnarla
agli stranieri. Questo il teorema.
Proposto da un settimanale francese, andrebbe archiviato tra quelli che la limpida coscienza culturale
del prof. Vittore Branca chiama “chiacchiere e isterismi internazionali”. Sennonchè, nel sostenere la
consegna di Venezia in appalto alla Cee e in tutela a un doge straniero, si cimenta anche Carlo Ripa
di Meana, commissario comunitario all’Ambiente, un socialista per quale fin dagli anni ’70 fare il
sindaco di Venezia sarebbe equivalso, parole sue, “a toccare il cielo con un dito”.
La tendenza a considerare Venezia da esportazione non è soltanto esibizionismo politico, il modo più
snob di amarla. Nasconde il fastidio abbastanza diffuso anche in Italia e nello stesso Veneto, di chi
reputa la città incombenza per sole elites, sottratta alla volgarità dei comuni mortali. Atteggiamento
provinciale anche quando scintilla di cosmopolitismo; da colonizzati anche se sventola l’apertura
verso il nuovo mondo.
Una Venezia cocotte d’Europa, pied a terre, prostituta per decadenza. Una città che, oggi in emorragia
di abitanti, spingerebbe domani i superstiti a vendere la residua identità alle nuove burocrazie di
Bruxelles e Strasburgo, a detta degli esperti la parte peggiore e più parassitaria della Comunità. No,
non è una cosa seria. Suona come una resa. Peggio, come un’assoluzione di chi potendo non fa.
I mezzi finanziari ci sono, a patto che lo Stato li renda celermente utilizzabili; se, in aggiunta, il buon
cuore della Cee intende investire un po’ di Ecu, nessuno muoverà obiezioni. Il Banco di San Marco è
in mani francesi; gli hotel della Ciga in quelle dell’Aga Khan. Gli stranieri hanno acquistato di tutto,
isole comprese; Mulino Stucky è in vendita al miglior offerente. Non sta qui la questione.
Venezia non può diventare un’opzione, deve restare un destino. Che Paese sarebbe mai il nostro se
firmassimo, sotto qualsiasi forma e persino con le migliori intenzioni, la rinuncia alla più elementare
delle responsabilità che la storia ci affida?
Fino a prova contraria, l’Italia fa parte della Cee e, nonostante i guai attuali, viene tuttora classificata
come quinta potenza industriale al mondo. Se la Legge speciale non tiene più, la si aggiorni. Se per
il disinquinamento della laguna servono i due consorzi, che la regione Veneto si sbrighi. Se il collaudo
delle difese a mare dà risultati positivi, si proceda. Se il mercato delle case e il degrado dei servizi
spinge all’esodo, si dia precedenza assoluta all’emergenza. Se si ritiene che un’altra autorità
garantisca unità e velocità agli interventi, si predisponga un nuovo status della città. Bisogna ficcarsi
bene in testa che sono tutte cose possibili, non utopia; che accanto agli speculatori e alle prefiche
esistono nella stessa città uomini e forze in grado di onorare un patto di servizio ad esclusivo
vantaggio di Venezia.
Dimentichiamo le suggestioni: la Serenissima, il ponte fra Est e Ovest, la capitale, l’Expo, la Cee, gli
scenari, i dogi, quel continuo esitare tra nostalgia del passato e choc da futuro. E chi volesse una
Venezia senza lingua e popolo, affollata di spettri, una babele di vip, un teatrino dell’apparenza, l’usa
e getta rigorosamente in abito da sera, lo dichiari senza giri di parole. Spieghi a carte scoperte che
Venezia dovrebbe essere un po’ Montecarlo e un po’ Disneyland, mezza casinò e mezza museo, città
di custodi, pendolari e ospiti, non più un frammento di vita finalmente preservato dal mare, dai veleni,
dall’ignoranza e da una civiltà di sole vetrine.
Se Venezia non si salva legata al suo territorio, non la salverà più nessuno. E il banco di prova di un
Veneto ricco quanto la Baviera e di un Nordest tra le dieci aree più dinamiche d’Europa.
“Quello di Venezia è un crepuscolo delicato ed eterno, senza prima né dopo”. L’intuizione poetica di
Borges esprime più forza di cento progettoni, perché in ballo è l’eternità di quel crepuscolo. Non è
troppo tardi; si può ancora anticipare un’alba.