2001 giugno 10 Ministri ieri/1
2001 giugno 10 – Ministri ieri (1)
Leggo e sento che siamo praticamente in lutto stretto per l’assenza di ministri veneti nel secondo
governo Berlusconi. A mio parere, la cosa non dovrebbe fare né caldo né freddo: date le circostanze,
trovo anzi patetica questa storia del Veneto “gigante” in economia e “nano” in politica. Con una realtà
supersonica, il ritrattino di famiglia non regge più.
L’equazione secondo la quale più ministri vuol dire più potere politico, dunque più vitalità locale, va
almeno riletta a fondo, ben lontano dai luoghi comuni. Era tagliata su misura soprattutto per la
cosiddetta prima repubblica, fondata sul partito unico della Dc, senza alternanza di schieramento.
Per com’era la Dc, organizzata secondo una costellazione di correnti, notabili, associazione, feudi,
voti e tessere, il dosaggio dei ministri sul territorio diventava decisivo. Il federalismo delle poltrone
era il solo in auge.
Secondo la concezione del doroteo post-bisagliano Carlo Bernini, il dogma era il seguente: “Più che
a Venezia, bisogna contare a Roma”. Contare stava anche per conta dei ministri veneti, o nordestini,
come prova del peso di una regione o di un’area di riferimento.
Tutt’altri tempi, altro linguaggio perfino. Quando, a 44 anni, diventò per la prima volta ministro, Toni
Bisaglia dichiarò a Giampaolo Pansa che la sua sola “speranza” era di diventare “l’erede naturale” di
Rumor. Il tono era filiale.
Mariano Rumor, allorché aveva messo piede a Palazzo Chigi per la prima volta delle sue cinque volte
(!), confessò tormenti, ossessioni, malinconie, spaesamento, un senso acuto di prigionia e di lavoro
coatto. Finalmente, seduto sulla poltrona cinquecentesca di presidente del Consiglio, mentre
ammirava il parato di seta azzurra, il caminetto in marmo grigio e le decorazioni, disse a voce alta e
da solo: “Ormai ci sono e devono starci e starci bene”.
Era un soggetto di culto il potere, un’ascesi anche regionale, la montagna delle sette balze della
politica. Come andare in pellegrinaggio a Roma, ma con il partito di casa, fondato sul “Veneto
Bianco” e sui rapporti di forza, sulle alleanze congressuali e sui leader del consenso diffuso. Qualche
anno fa, Carlo Francanziani mi scriveva non a caso: “Ritenni di iscrivermi alla Dc perché era il partito
di De Gasperi, Vanoni, La Pira, Moro, Marcora…”.
Una sorta di Vita dei Santi a Piazza del Gesù. In quel contesto, avere ministri o no, e quanti, valeva
l’influenza, il declino o la crisi di potere di un’area. Nel partito unico della Dc, i “posti” di governo
rappresentavano il vero contro-potere del territorio faccia a faccia con il centro: più degli stessi alleati
laici e socialisti. E oggi?