2001 luglio 15 La distanza
2001 luglio 15 – La distanza
La malattia è una distanza. Tra chi deve curarsi e chi deve curare.
Non è vero, a mio parere, che l’ammalato si sente parte di una sofferenza di tanti. L’ammalato si sente
sempre solo.
Il male è suo, e il male sta al centro di sé. Anzi, ne monopolizza il centro mentale.
Anche il male più comune viene sentito come unico. Nessuno si riconosce veramente nel male
dell’altro: la sofferenza privatizza ogni male. Anche la speranza non assomiglia mai a nessun’altra
speranza.
E’egoista il male, individualista al massimo. Addirittura narcisista: a volte, ci si guarda il male, come
specchiandosi nell’Io, per fragile autostima. La malattia è possessiva, come la paura e l’amore.
Guarire è un battesimo. Una volta ho detto a un amico, messo non tanto bene: “Fai progressi”. Lui
mi ha risposto: “Non fare progetti”.
Il buon medico è prima di tutto bravo, questo mi pare ovvio. Ma è bravissimo se sa anche colmare
quella distanza: la distanza enorme, tra chi deve curarsi e chi deve curare, tra la solitudine di
quell’ammalato e la standardizzazione di quell’intervento. La sensazione più deprimente, per un
ammalato, è di sentirsi in serie, un caso, una cartella clinica, il numero della stanza, un costo per l’Asl,
un peso a carico, non lui, esattamente lui, titolare di una malattia ad personam, destinatario in carne
ed ossa di un gesto infungibile.
Il medico ha un potere enorme. Se ne prende umilmente coscienza, il suo diventa il lavoro migliore
del mondo: il superlativo del servizio, tra Vangelo e Ippocrate. Anche un infermiere può vincere ogni
giorno, ogni ora, la distanza tra una routine (di mestiere) e l’aspettativa (del paziente).
L’efficienza, tutt’altro che una virtù fredda, genera fiducia, il più potente dei farmaci in circolazione.
Un reparto d’ospedale è una squadra: si vede subito la mano dell’allenatore, e quanto vale, anche se
qui il gol è la vita.
Non lamentiamoci sempre. Nel Veneto siamo messi bene: a volte, non sappiamo il bene di cui
godiamo; a volte, siamo ingenuamente viziati da un’idea miracolistica della salute.
Conosco sempre più medici, infermieri, lavoratori, dirigenti, che testimoniano quotidianamente una
nozione alta del loro lavoro, del tutto sbilanciata sull’altro. L’ammalato è una persona spogliata,
come in affido; ma nessuno, quanto un medico, s’introduce come persona nella vita e nella morte di
chiunque.
Non ci sono familiarità, parentela o amicizia che tengano. La buona sanità è questa idea circolare
della “persona”: questa ha bisogno d’incentivi, non di tagli.