2002 febbraio 26 Doping nel fondo

2002 febbraio 26 – Doping nel fondo

C’è stato oro e oro, anche sulla neve olimpica di Salt Lake City. C’è l’oro truccato, da smascherare,
da revocare e da buttar via senza valore; e c’è l’oro zecchino, purissimo come i ducati della Venezia
del Cinquecento, che nello sport dovrebbe sempre spettare soltanto a chi ha vinto senza barare.
L’oro di Gabriella Paruzzi sui 30 chilometri di fondo appartiene al secondo tipo, genuino al cento
per cento.
Suona benissimo che, trentaduenne molto bella, sexy e cordiale ma altrettanto acqua e sapone come
tipo di donna, la Paruzzi sia oltre che brava anche friulana, di una terra tradizionalmente a
denominazione controllata. Lei che vive a Camporosso, dalle parti di Tarvisio , appena superato il
traguardo americano ha gridato felice alla sua massaggiatrice:” Dammelo, il vino!” Prosit, buon
sangue non mente.
Adesso vale però la pena di ripensare il tutto a podio smontato, per evitare fraintendimenti. Chi
vince per doping, non ha vinto. La squalifica non gli toglie nulla, perché nulla meritava e nulla gli
spettava; si tratta di un abusivo del podio, di un bracconiere di medaglie, di un errore della natura e
dell’ordine d’arrivo : questo deve essere chiaro a tutti. C’è chi scia e chi si sciroppa, punto.
Per la squalifica di una campionessa russa, la Paruzzi ha fatto l’oro a tavolino con 3 ore e 45 minuti
di ritardo rispetto alla conclusione della gara. In realtà, aveva già vinto sul traguardo, in tempo
reale; lei non deve ringraziare nessuno né le hanno “restituito” qualcosa.
Era tutta roba sua: fatica da piangere, crampi, tenacia, alti e bassi, resistenza ai due momenti di
crisi, volatona finale con la Belmondo, vittoria, sfinimento, sorriso a 24 carati e medaglia per
sempre. Tutta roba sua, già 3 ore e 45 minuti prima della sentenza del Comitato olimpico.
Il doping è un fuori gara , e soltanto chi usa la medicina sportiva secondo regole va considerato in
gara. Senza ficcare questo concetto nel nostro cranio, e soprattutto in quello di milioni di ragazzi,
falliremo sempre ogni anti-doping. Prima che un controllo, l’antidoping rappresenti in parole povere
uno stile di vita
Forse lo “schifo” urlato in questi giorni da Stefania Belmondo e da Gabriella Paruzzi, dico forse, è
destinato a lasciare fortunatamente traccia duratura. Intanto, il governo dello sport mondiale (leggi
Cio) ha incominciato a investire seriamente in tecnologia: siccome la scienza degli inganni è un
business che lavora a tempo pieno, non bisogna mai risparmiare in mezzi e dollari sul contrasto
dell’”anti”. Scienza contro scienza, con un risultato fino a Salt Lake City inedito e positivo da non
trascurare.
“E’ la prima volta che un’Olimpiade trova l’Epo. Un grosso progresso, con tutte le conseguenze,
fino all’oro”. A farmelo notare è stato ieri Patrizio Sarto, appena rientrato dagli Usa, dove per 18
giorni ha seguìto come medico gli atleti del biathlon, spartano sport dell’inverno che mette insieme
lo sci di fondo con il tiro della carabina.
Veneziano, 38 anni, sette volte campione del mondo di pattinaggio a rotelle, Sarto confida per il
futuro soprattutto nel cosiddetto “passaporto ematologico”, una specie di carta d’identità del sangue
di ciascun atleta. Ci sta lavorando l’Agenzia mondiale dell’anti-doping (leggi Wada), per fissare i
valori ad personam dai quali ogni atleta non potrà discostarsi. Il meglio della prevenzione,
immagino.
Nessuno potrà più raccontare la storia dell’orso, come ha fatto la russa Lazutina, tentando di
spiegare la sua emoglobina a gogò con le mestruazioni! Un medico norvegese ha chiarito che i
valori sono una cosa seria e che i suoi 16,8 grammi nel sangue erano fuori di ogni grazia di Dio.
Anzi, ben oltre, senza la minima attinenza con il ciclo mestruale.
La differenza sta tutta qua: Gabriella Paruzzi sciava da sola, la Lazutina in compagnia dell’ormone
proibito, ultima generazione dell’Epo, sostanza che moltiplica i globuli rossi come i pani e i pesci
del miracolo evangelico. Alla fine, Gabriella ha ringraziato i suoi tecnici per averle lavorato gli sci
con silicone e carta di vetro invece che con la sciolina: non aveva praticamente altri da ringraziare.

Per questo, soltanto per questo, ha detto sul podio: ”E’ mia, solo mia questa medaglia, sul podio
sono da sola”. Mai solitudine è stata tanto pedagogica e dorata.