2002 giugno 23 Da Treviso a Verona il voto non ha più padroni

2002 giugno 23 – Da Treviso a Verona il voto non ha più padroni. Un cantiere politico che sfugge
al controllo del «centro»
Treviso. Il Patriarcato di Venezia era stato il più svelto di tutti nel decretare la fine del tradizionale
«Veneto cattolico», bianco che più bianco non si poteva, fabbrica del consenso attorno a parrocchie (in
basso) e vescovi (in alto). Già sette anni fa, un documento ufficiale certificò l’avvenuto terremoto: la
canonica diventava super partes all’insegna, per così dire, del libero voto politico in libera Chiesa
pastorale. Fatto. Semmai, si intravedono ora due cattolicesimi alla veneta. Uno più di servizio, con lo
sguardo al nuovo della società, che benedice feste multietniche sul Montello; uno più identitario, che fa
coincidere il lascito religioso con la difesa delle radici, dal dialetto al precetto festivo, dal radicchio al
vino doc, dalle sagre paesane alla fiorente editoria locale. L’ultimo numero dell’annuario di storia
«Venetica» ammette che è difficile indovinare quale sarà lo sbocco di queste due chiese territoriali.
Una cosa è sicura. Il recentissimo voto provinciale di Treviso e il comunale di Verona dimostrano la
totale libertà del voto cattolico interessato soltanto a non farsi più arruolare, tanto meno nello schema di
un bipolarismo nazionale da curva sud. Con qualche sorpresa però, che sta a ribadire come il Nordest
abbia tutt’altro che archiviato il ruolo di cantiere, aperto fin dai primissimi anni novanta. Laureato a
Udine in scienze della produzione animale, rieletto a trentaquattro anni presidente della Provincia di
Treviso quasi con un plebiscito, il leghista Luca Zaia sostiene che nessuno controlla più e/o dirige il
voto, nemmeno i poteri forti. «La Chiesa, dice approvando in pieno, si comporta esattamente come
l’associazione industriali». Cioè non si spende per nessuno; «nessun diktat dal vescovo», precisa
Giancarlo Gentilini, settantaquattro anni, sindaco dal 1994, che in città ha fatto da acchiappavoti per
Zaia. Nuova e vecchia guardia della Lega. Assieme a Verona, Treviso svela le dinamiche in atto nel
Veneto, in particolare tre. L’alleanza geneticamente imperfetta tra Forza Italia e Lega Nord. In più, la
ristrutturazione tuttora in corso del moderatismo incompiuto, eredità della dc. Infine il modello
Giulietta e Romeo del centrosinistra, che da Verona aspira a convertire all’unione le «capre pazze di
Roma», rabbiosa espressione questa di Massimo Cacciari appena rientrato a Venezia da un ciclo di
conferenze in Spagna. Sullo sfondo del Nordest si legge a mio parere l’esatto contrario del disincanto e
del riflusso. Anzi, un panorama molto inquieto e più che mai alla ricerca di formule originali, in grado
di accendere la politica nazionale partendo, oggi come ieri, dall’amministrazione non viceversa. L’ente
locale svela il consenso per quello che è, senza troppe finzioni, il più delle volte al riparo dal suk
televisivo dominante. Prendiamo Treviso, epicentro imprenditoriale. Il Comune capoluogo ha
ottantaquattromila abitanti. La Provincia conta novantacinque Comuni con trecentottanta aree
industriali! La disoccupazione è al 2,1 per cento, mentre allo sviluppo sono già destinati altri dieci
milioni di metri quadrati. «Uno spreco di territorio», accusano lo stesso Zaia e uno storico esponente
leghista come l’ex deputato Giuseppe Covre; «dissipazione dello spazio fisico» rincara l’architetto
Domenico Luciani, che guida le serrate ricerche della Fondazione Benetton. Nella città meno
ideologica del Nordest, i poteri che contano sono soprattutto tre e sembrano lavorare tacitamente di
conserva nonostante storie l’una del tutto separata dall’altra. Il sindaco, il banchiere e l’imprenditore
localista che concilia il mondo con piazza dei Signori.
Il sindaco Gentilini esibisce i cantieri in serie, strade, acquedotti, pescherie, arredo urbano, e allontana
accattoni oltre che venditori abusivi. In occasione di matrimoni, si rivolge agli sposi intimando loro di
fare subito figli: «Non ho tempo di attendere», avverte. Il banchiere Dino De Poli, coetaneo di
Gentilini, è uomo colto, un postdemocristiano progressista, da una vita allergico al vecchio cangiante
doroteismo. Con la Fondazione Cassamarca crea l’università, investe sulla cultura, acquista teatri, è in

fondo l’altro sindaco. Gentilini governa, De Poli regna. Il tutto con la benedizione del terzo potere
trevisano, i Benetton, che pur globali vincono scudetti da mecenati locali, danno sport a tremila ragazzi,
ristrutturano storici edifici e mettono in vetrina il loro autobiografico United Colors davanti alla
scalinata del Palazzo dei Trecento, medioevo e terzo millennio della città. Intervistato in queste ore
dalla «Tribuna di Treviso», Gilberto Benetton ha attribuito a Gentilini il coraggio di aver sfiorato i
confini di legge pur di fare il necessario: «Cosa che in passato – ha insistito – mai altri sindaci,
onestamente, hanno fatto». Il centrodestra non ha capito niente di questa inedita Treviso, capoluogo
decisionista e trasversale, fino al punto di presentarsi al voto provinciale di maggio contro l’alleato
Gentilini, contro l’alleato Zaia, contro la Lega degli amministratori insomma. Forza Italia si è distinta
per aprire le porte a quelli che il sindaco chiama «rifugiati politici in fi» o «vecchi pipistrelli di Casa
delle Libertà» oppure «cespuglietti del potere», sempre alludendo folkloristicamente al ceto sul cui
collasso esplose proprio il fenomeno Lega ma sul cui serbatoio contano ancora troppi centroforzisti.
Risultato delle urne nella Marca: Forza Italia nemmeno al ballottaggio, Lega territoriale in parata e, ciò
che solo conta ormai, allusioni a futura memoria. Ma qui entra in tackle a gamba tesa l’analisi di
Massimo Cacciari, che considera il caso Treviso un primo «segnale politico generale». L’intellettuale
più costituente del Nordest, che fra due mesi si dimetterà da consigliere regionale veneto e che fra
quattro tornerà in cattedra a Milano, sembra guardare lontano: «La Lega, sostiene l’ex sindaco di
Venezia, arresta la sua frana soltanto dove corre esplicitamente da sola ed esplicitamente contro Forza
Italia, tanto che a Treviso riprende tutti i voti che aveva nel 1997. Ma da un punto di vista politico,
questo successo dimostra che la Lega è davvero finita! Perché Bossi non potrà più tornare a giocare da
solo». Come dire che il localismo premia la solitudine leghista, ma che questa carta vincente sarà
politicamente interdetta dall’alleanza con Berlusconi. Perciò la «lezioncina» di Treviso apre a detta di
Cacciari uno spazio autonomistico enorme a patto che, sono parole sue, «l’Ulivo nazionale sappia
rappresentarlo. E se non saprà, al Nord non ci sarà alcuna inversione politica di tendenza. Nessuna». In
un Veneto governato ad ampia maggioranza dal centrodestra, il voto di Treviso ha visto rompersi la
coalizione del presidente Giancarlo Galan mentre a Verona la scissione ha investito la stessa Forza
Italia. È interessante: nel cantiere a tempo pieno del Nordest, è ora il centrodestra non il centrosinistra a
svelare il tarlo perdente della frammentazione e della disunione. Nell’immaginario regionale, quasi uno
choc, uno spot a rovescio rispetto allo scenario nazionale. Verona in particolare docet. Anzi Verona
certifica la ricetta proposta da almeno tre anni da Cacciari: «L’Ulivo come repubblica federale»,
aspettando Prodi. In altre parole, Ulivo senza egemonie, fatto di unità e di distinzioni, di partiti e di
società, di candidati forti che come il nuovo sindaco di Verona, avvocato Paolo Zanotto, si dichiarano
subito «progressista di centro non uomo di sinistra». A dire il vero, l’Ulivo del Nordest non ama più
illudersi. E Cacciari fa una confessione tanto retrospettiva quanto sferzante: «Il giorno dopo un voto
amministrativo molto significativo perché indicava una strada politica – ricorda – sono stato vicino al
vomito nel vedere che a Roma avevano trovato il modo di rompersi le palle con il portavoce e il
governo ombra dell’Ulivo!!! Come se a qualcuno potesse interessare qualcosa di tutto questo. Quel
giorno, sapendo che avrei fatto danno, mi sono morso la mano per non scrivere un articolo per l’amico
Ezio Mauro». Non c’è mutazione sociologica in atto a Nordest, ma latente fluttuazione del consenso
moderato. Don Bruno Fasani, cinquantaquattro anni, da nove direttore di «Verona fedele», settimanale
diocesano sempre più diffuso, usa il termine «compostezza» per definire ciò che serve oggi alla
politica. Aggiunge che «le baruffe goldoniane sono perdenti». L’ultimo Veneto a disposizione vota
anche per vitalissima stanchezza. È la democrazia pensosa, non scettica.
23 giugno 2002