2002 luglio 16 Calcio all’italiana
2002 luglio 16 – Calcio all’ italiana
E’ la fase bizantina del calcio italiano, fra l’altro vecchia come il cucco, un po’ rimbambita voglio
dire. Anche i lettori più giovani dovrebbero sapere chi fosse Gianni Rivera, illuminista del calcio
e in particolare del Milan anni ‘60, uno di quei campioni tanto grandi da accendere anche grandi
discussioni sulla natura della “classe” di un calciatore.
Tanti anni fa chiesi a Nereo Rocco, che lo allenava e lo adorava, chi fosse Rivera tatticamente
parlando. Il “paròn”, che al nome Rivera s’illuminava ogni volta d’immenso, mi rispose così:
”Xe un grande centravanti arretrato, fratello gemello de Hidegkuti.”
Hidegkuti, preferisco ricordare ai ragazzi di oggi, era l’epicentro geometrico dell’attacco
dell’Ungheria degli anni ’50, una squadra talmente super da far sentire piccolo persino l’aggettivo
“Grande” al quale da allora l’accompagnano gli storici del pallone. La Grande Ungheria.
Tornando a noi, il proto difensivista Rocco considerava dunque il miglior rifinitore d’Europa un
centravanti arretrato e, senza tante storie sui ruoli, come tale utilizzò Rivera se proprio gli serviva.
A Glasgow contro il Celtic, per esempio, quando mediano era guarda il caso Giovanni Trapattoni,
specialista nel gestire gli spazi a centrocampo: il culo basso del Trap ne rappresentava la bussola.
Le squadre sono mosaici non marmellate; cercano equilibri non robot a comando. Si può vincere
con una sola punta e, invece, non riuscire ad andare in gol nemmeno con quattro punte di ruolo.
Ciàpa su e porta a casa.
Negli anni ‘70 il Milan vinse una coppa con gli inglesi del Leeds avendo soltanto Chiarugi
davanti; ma l’Inter la perse con l’Ajax tenendo in attacco soltanto Boninsegna. La bibliografia
del football segnala infinite variabili con un’unica costante: le migliori squadre del mondo sono
quelle che organizzano al meglio la vena dei propri goleador. Uno, due, tre o quattro, si vedrà;
ma fondamentale è il telaio.
Nel 1973, seguita da quasi cinquantamila tifosi italiani, la Juve andò a Belgrado a giocare la finale
di Coppa dei Campioni con gli olandesi dell’Ajax. Dire Ajax era dire Cruyff e, soprattutto, il
calcio più arrapante in area di rigore. Io ne andavo letteralmente pazzo.
Giampiero Boniperti, “presidente tecnico”, pensò: se ci rintaniamo in difesa, ne prendiamo tre;
proviamo a giocare come loro, faccia a faccia. Tolse il mediano Cuccureddu e schierò in attacco
i seguenti giocatori, che incredibilmente ricordo a memoria: Altafini, Causio, Anastasi, Capello,
Bettega, quest’ultimo sostituito poi da Haller. Uno più offensivo dell’altro.
Senza sfigurare la Juve perse 1-0 con un gol fortunoso di Rep, e Boniperti fu naturalmente
accusato di scriteriato offensivismo. Secondo gli Einstein del giorno dopo, con Cuccureddu in
campo avrebbe sicuramente vinto, senza il minimo dubbio critico.
E’ da una vita che continua questa solfa, ed è per questo che in Italia il “bel gioco” dipende
esclusivamente dal risultato, non diventando mai cultura dello spettacolo. Se perdi attaccando,
sarai un fesso; se perdi difendendoti, sei un vile. Se vinci attaccando sei un eroe, ma se vinci
difendendoti allora sarai un Dio.
Soprattutto con la Nazionale, cortigiana del senno di poi, bisogna avere gli attributi di un
Bartolomeo Colleoni per tener botta con successo alle sue tempeste umorali. Ci riuscì sotto il
fascismo Vittorio Pozzo, commissario unico con poteri dittatoriali. Ci prese in democrazia
soltanto Enzo Bearzot, con un capolavoro di ingegneria applicata tra difesa (di Zoff) e attacco (di
Pablito Rossi).
Oggi Trapattoni ha i giocatori, e persino qualche attaccante in soprannumero. Ha invece smarrito
per strada l’atmosfera, che non può essere certo quella della petrolifera e gassosa Baku.
Se non era per la punizione srotolata come seta da Del Piero, il bilancio sarebbe né cattivo né
buono, soltanto insulso. Con l’arbitro Moreno in campo, almeno c’era aria di tangentopoli.