2002 marzo 29 Motociclismo e morte
2002 marzo 29 – Motociclismo
Se in tanti sport c’è gente speciale, sulle moto corre gente ancora più speciale. I piloti sono esposti
senza tregua, fanno fatica a difendersi dal loro stesso mestiere, sanno dal primo giorno all’ultimo
che in gara o in prova cadranno, sull’asfalto o addosso a una barriera, a 220 all’ora come il povero
Kato, a 198 come Melandri.
Quando parte la ruota, non resta loro che l’attimo del crash. “Ho avuto paura di morire”, ha
sussurrato Melandri, che a ragione si considera ora fortunato.
Si può uscire di strada, come l’italiano, su un cronico punto nero del circuito ma anche in un punto
senza presagi, come Kato. Ci si può ferire tanto o poco, restare del tutto illesi ma anche finire in
pezzi, sempre sul millimetro di asfalto che separa vita e morte del campione. Là sceglie il destino.
Mi ripeto. Ogni volta che li vedo correre, sento di amare fino alla tenerezza questi ragazzi
incoscienti. A 15 anni sono già promesse a tutto gas; poi, ventenni, diventano campioni del mondo
come se fosse la cosa più naturale, un appuntamento prefissato fin da bambini.
Non si piangono mai addosso. Mai.
In rapporto al calcio, avranno sì e no un millesimo di televisione. Sì e no.
Anche se sanno bene come stanno le cose, lasciano che l’insidia appaia ai più un innocuo calcolo
delle probabilità. Invocano più sicurezza, però senza dare nell’occhio, quasi con inconscio ritegno.
Sul maligno circuito di Suzuka ci sono state 37 cadute; 90 l’anno scorso in Portogallo. I piloti si
aggiustano alla bell’e meglio ritornando alla svelta in pista, magari ingessati, con le ossa
imbullonate e le cicatrici ancora fresche di pronto soccorso. Il medico italiano che accompagna i
nostri è una specie di padre Pio al seguito
A volte le cose precipitano, in un decimo di secondo. Tutt’altro che francescanamente sorella,
Sorella velocità può anche piantarli di colpo in asso rubando la loro carriera e/o esistenza.
Da tempo il motociclismo é un mondo soprattutto italiano e giapponese. Aprilia, il marchio
dell’innovazione, e i giganti giapponesi, Honda in testa. Adesso, anche la gloriosa Ducati contro la
Yamaha e la Suzuki. E i piloti, Rossi e Ukawa, Biaggi e Nakano, Capirossi e Kato, fino a ieri il più
bravo delle ultime leve d’Oriente.
Un duello di uomini nel duello della tecnica. Anche due culture del rischio. Due modi di vivere
l’exploit a 300 e rotti all’ora, avendo tra sé e il pericolo niente, né la cintura né il roll-bar della
formula uno.
Soltanto il vento. Solo il casco: quello di Kato si è spezzato in due. Troppo forte il colpo anche per
un oggetto ad alta tecnologia d’impatto.
Ai nostri occhi conformisti, i cari giapponesi volanti sembrano tutti uguali, fatti in serie, quasi
indistinguibili. Ricordano a prima vista un prodotto prestampato e collettivo, cioè il contrario di un
Valentino Rossi o di un Biaggi, pezzi unici di scuola italiana. Ma è un effetto ottico.
In realtà, c’è una sola differenza. I ragazzi del Sol Levante si lasciano scoprire un po’ alla volta, con
il pudore comunicativo di quel popolo e con l’incomunicabilità della loro lingua. Sono avversari
leali; simpaticamente aggressivi.
Non di rado tengono precoce famiglia, come Kato ad esempio. Portano ai box moglie e creatura in
fasce, motori e sentimenti, con il sorriso dei venti anni affidato a un pazzesco tachimetro.
Il più grande pilota italiano è stato Giacomo Agostini, che vinse 311 corse e 15 titoli mondiali! Lo
ricordo bene, imbattibile soprattutto sulla portentosa Mv Agusta 500 e 350. Il suo stile filava liscio
come l’olio, con rare cadute e una sola frattura in tutta la carriera. A un braccio, se ricordo bene.
Eppure, per quanto lo ammirassi, non mi appassionava. Forse perché era troppo bello, da rotocalco,
e troppo perfetto, da manuale, troppo gagà dei box, troppo divino, troppo perdutamente innamorato
di sé.
Sento di più gli sparvieri della generazione dei Kato, Melandri, Valentino Rossi, campioni ragazzini
della porta accanto anche quando fanno drammatici conti con la propria incolumità . Se penso a loro
e ripenso all’impunito scarpone che sabato ha fatto fuori lo juventino Nedved con i bulloni sul
ginocchio, confesso che il mio amato calcio mi fa venire a volte il vomito.