2003 agosto 15 Nordest
Nota: vale questa seconda versione; la prima conteneva alla fine un’aggiunta errata. Grazie. Lago.
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In tre mesi il Nordest é aumentato di ottomila imprese abbondanti ; il solo Veneto ha così superato
la soglia delle quattrocentomila. Mentre l’Europa comunica ufficialmente la crescita zero della sua
economia, questi dati trimestrali dell’Unione delle Camere di Commercio a me suonano bene,
segnalano che il Nordest non ha ancora esaurito la voglia di impresa dal basso né perduto
l’intenzione di reagire alla fiacca dei mercati.
In parole povere, quando apro il giornale e leggo che dalle nostre parti il numero delle imprese
aumenta in percentuale più che in qualunque altra parte d’Italia, la mia reazione é ancora la stessa di
una volta: finché c’é imprenditoria c’é speranza.. E invece no, povero illuso! Non avrei capito
niente, sarei oramai in ritardo di 30 anni, avrei preso per buona un cattiva notizia.
Stando all’opinione oggi ampiamente dominante sui giornali e nei convegni , questa crescita
dovrebbe invece preoccuparmi da morire e farmi piangere sul futuro del Nordest. Per stare
all’attuale moda economica, dovrei anzi augurarmi esattamente il contrario, e cioè il calo del
numero di imprese. Brindare semmai alla mortalità, mai più alla loro natalità.
La tesi corrente é infatti questa: tutte queste micro-aziende non servirebbero a niente, farebbero
danni e basta, spingerebbero all’indietro l’Italia, a cominciare proprio dal Nordest del vecchio
”Piccolo é bello” delle origini. Il “piccolo” d’impresa avrebbe insomma fatto il suo tempo,
riducendo l’economia a una poltiglia di nani proprio nel momento in cui, al contrario, il mondo
globale pretenderebbe da noi soltanto giganti, concentrazioni megagalattiche, fusioni da capogiro,
imprenditori medi in perenne erezione produttivistica per diventare grandi.
O ingrandirsi o morire, altra strada non ci sarebbe al giorno d’oggi. Secondo me, questa è una
pazzia. Passerà, come la ciclopica bolla della “nuova economia”.
Non solo. Tale filosofia propone brutalmente un’idea aberrante della società, ridotta a puro
accessorio se non proprio a vuoto a perdere dell’economia. Come dire che la vita di una comunità
si misurerebbe soltanto secondo le leggi della macro-economia, del grande Pil a sfilze di zeri e dei
conglomerati d’impresa. Il resto sarebbe spazzatura da bottegai, partite Iva da pezzenti del
capitalismo confindustriale.
Ma é proprio in questo scenario senza confini che, per fortuna, il “Piccolo é bello” non é morto né
in coma. Con le cifre dimostra piuttosto di crescere ancora, funziona come primo motore
dell’imprenditoria di massa, non ha perso nulla della sua spinta propulsiva , testimonia la cultura del
territorio.
L’ex presidente degli industriali di Vicenza, Pino Bisazza, sostiene che non si può più pretendere di
avere il capannone, il bar degli amici e la morosa sotto casa. Ha ragione da vendere; il Nordest ha
cambiato il Nordest con le sue stesse mani. Non é più lo stesso. Soprattutto, sta radicalmente
cambiando il mondo con il quale il Nordest deve confrontarsi economicamente.
Ciò non toglie che, mentre tutto cambia alla velocità della luce, la micro-impresa serva tanto al
tessuto della società quanto allo stato nascente dell’economia. Anche una ditta individuale
incrementa l’istinto a mettersi in proprio. Perciò la natalità delle imprese resta un valore popolare,
altro che una palla al piede strutturale come si sostiene adesso da più parti.
Vorrei che qualcuno mi spiegasse ad esempio come il Friuli – Venezia Giulia del dopo terremoto
avrebbe potuto salire al terzo posto nella classifica nazionale del benessere senza la trama della
piccola impresa. Come avrebbe potuto il Veneto costruirsi in 30 anni quasi 800 mila abitazioni. E
come la tradizione dell’artigianato restare una voce fondamentale del Trentino- Alto Adige.
Il fatto é che il Nordest cammina con naturalezza sulle gambe di due tipi di economia. Quella più
internazionalizzata, che delocalizza e gira il mondo senza paura, che conquista commesse anche alla
Casa Bianca, al Cremlino o alla Real Casa inglese, che comincia a prendere confidenza con i
manager, che ha inventato in pochi decenni un modello da export dando lavoro a più di centomila
extracomunitari.
E c’é una seconda strepitosa economia di sottobosco, un “Piccolo é bello” tutto da riscoprire, che si
rimodella e irrobustisce. Si pensi all’artigianato che dall’industria ha preso l’organizzazione ma non
lo spirito standard. Si pensi all’espansione anche qualitativa del non-profit, che si è inventato
l’economia sociale, una specie di welfare prodotto in proprio, un ammortizzatore economico che
anticipa sia il profitto sia lo Stato.
La grande e la piccola economia sono sorelle siamesi. Soprattutto a Nordest si può vedere ad occhio
nudo la loro interdipendenza. Tirano o declinano insieme, questo il punto; sono impensabili
separate.
Con un appunto in più. Oggi il “Piccolo é bello” aggiorna l’indispensabile economia di sottobosco,
da sempre coerente con un territorio in miniatura come il Nordest, privo di grandi concentrazioni
urbane e addirittura impegnato a smantellare – per modernizzarlo – il suo unico dinosauro
industriale: Marghera.
“Piccolo é bello” non sa di burocrazia, di assistenzialismo, di rassegnazione, di pancia piena. A
Nordest é stato una colonna del benessere e, in parallelo alla società del lavoro, ha favorito anche
un’economia familiare.
E’ andato oltre i fatturati, favorendo la coesione sociale. Il suo nanismo economico non è mai stato
nanismo sociale. Dipendesse dal sottoscritto, continuerei a festeggiare finché la natalità delle
imprese supererà la loro mortalità.
Non date retta ai demolitori di giornata.“Il Piccolo é bello” non frena il capitalismo del Nordest.
Aiuta anzi a socializzare al massimo i schèi, il fai da te e la responsabilità nei momenti duri.
Ci guadagna alla fine la comunità, il massimo. O no?