2003 febbraio 25 Il Mose

2003 Febbraio 25 – Il Mose

Venezia sfugge geneticamente all’ordinaria amministrazione, come svela anche il linguaggio della
città. Le leggi che se ne occupano sono sempre Speciali; il progetto di salvaguardia nacque
Progettone; il comitato di soggetti nazionali e veneti che oggi si riunisce è il Comitatone. Per niente
retorica qui l’enfasi sembra necessaria a sfidare, tra laguna e mare, storiche difficoltà.
La stessa sigla Mose, del Modulo sperimentale, allude quasi ad un antico presagio salvifico
attraverso quattro schiere di 78 paratoie da opporre alle acque più alte. Non é inedito al mondo il
ricorso alle dighe mobili , basti pensare al Tamigi, alla Schelda o a San Pietroburgo nella sola
Europa.
Ma resta unica Venezia ed è unico il Mose meccanico immaginato su misura della città unica. La
tecnologia non si sovrappone alla natura. Anzi, sta nella natura di Venezia, ne rappresenta il genio
del luogo.
Venezia al naturale è un mito. E’invece reale la Venezia innaturale, artificiale, tutta antropica e ad
alto valore aggiunto dall’uomo. Nella sua storia laica, la sola religione di stato era la scienza
idraulica.
“Impressionante”, recita Marco Paolini nel Milione. Per sostenere la chiesa della Salute i veneziani
piantarono un milione e 300 mila pali, portati giù dai boschi del Cadore e del Consiglio. La
Serenissima non si faceva intimidire dai numeri immani e investiva nella cultura della grande opera.
La soluzione Mose costerà allo Stato italiano 2,3 miliardi di euro, cioè 5000 miliardi di vecchie lire,
otto anni di lavoro, mille addetti, 9 milioni di euro all’anno per la gestione e la manutenzione. Ha
l’ambizione scientifica ed epocale di impedire che Venezia conosca altri 1966, l’anno della grande
spallata del mare al città, quando i giornali titolavano: “Venezia anno zero.” Ma, attraverso tecniche
del tutto nuove, rispolvera anche la più antica vocazione veneziana: governare con mano forte le
proprie innate fragilità.
E’ noto che l’habitat lagunare ha sempre avuto molti nemici fisici mortali. I fiumi veneti che,
dall’interno, provavano a interrarlo di detriti; l’Adriatico che, dall’esterno, spinge eternamente a
invaderlo con le maree. Senza contare il Po che, dalla sua foce, rischiava nei secoli di interrare
perfino le grandi bocche di porto che fanno da polmone tra laguna e mare.
A sfide ciclopiche, la Repubblica del leone ha risposto con la stessa unità di misura. Ha spostato il
Brenta, il Piave, il Sile come fossero secchi d’acqua e non fiumi. Ha difeso i litorali con i portentosi
blocchi di pietra dei “murazzi”. Ha spinto verso sud il Po tanto che il Delta, così come lo
conosciamo oggi, ha appena 400 anni.
Quando era in ballo il destino fisico di Venezia, la precedenza era assoluta; dogi e magistrati
idraulici non scherzavano. Affrontavano i lavori pubblici come operazioni militari oltre che
ambientali; i grandi interessi commerciali finivano per camminare soprattutto sulla gambe della
superiorità tecnologica. Nel deviare da nord a sud il Po, la Serenissima mise praticamente in secca il
porto degli Estensi, suoi confinanti.
Probabilmente più che altrove, a Venezia storia e cronaca non si perdono mai di vista. Rimasto
quattro anni in acqua, il prototipo del Mose è senza dubbio una delle opere più sperimentate al
mondo: nel senso che ogni suo pezzo, ogni sua cerniera, ogni suo cavo, ha subito un’infinità di
aggiornamenti, perfezionamenti, aggiustamenti, studi, prove. E’ frutto di un’idea che viene dal
1969 ma che da quindici anni si vede messa alla prova anche da un punto di vista emotivo, se così si
può dire.
Nulla si dimostra pacifico attorno alla salvaguardia di Venezia. Perché nessuna soluzione é
tecnicamente semplice e perché la delicatezza di Venezia genera un surplus di paura . O, meglio,
una particolarissima miscela di allarme e di conservazione, di resistenza e di intervento, di sindrome
delle pietre e di sospetto affaristico, di partito del fare e di precauzione. Di perenne convivenza tra
Morte a Venezia e Viva Venezia.

E’ nel bel mezzo di questa marea che ha galleggiato soprattutto il Mose.Un po’ di anni fa Livio
Zanetti scriveva :” I luminari del settore hanno scelto il Mose mentre i burocrati preferiscono i
muretti.”
Nel frattempo i dati si sono aggravati.Gli ingegneri del Consorzio Venezia Nuova, concessionario
dello Stato, censiscono giorno per giorno l’impressionante aumento delle acque alte per dimostrare
che non c’è più un minuto da perdere. Ma le “guerre di religione”, come le ha definite Massimo
Cacciari, sono da una trentina d’anni in agguato e proseguono al Comitatone d’oggi. Lo scrittore e
ambientalista Gianfranco Bettin considera il Mose “un catorcio”. Altri un “palliativo.”
Su un tema così strategico per Venezia, la cosiddetta “laguna di chiacchiere” non è stata tuttavia
inutile. Ha permesso di arrivare alla scelta finale con il massimo dell’informazione e, a mio parere,
ha fatto crescere la qualità del progetto Venezia.
Soltanto l’ideologia confonde le acque mentre servono tante cose assieme, più che mai
complementari e in nulla alternative. Non l’aut aut tra il Mose e gli interventi in laguna, tra il Mose
e la navigazione oppure tra il Mose e la protezione di Piazza San Marco a un metro e 10 centimetri
di marea. Di fronte ad un luogo tanto atipico, più l’intervento è totale più la soluzione sarà semplice.
Una cosa appare scontata. Venezia si gioca da tempo la vita.
Non è una questione locale . E’ localmente nazionale ma per conto terzi: per conto del mondo che
ha diritto a Venezia quanto i veneziani, tanto che Indro Montanelli sognava di affidarla all’Onu!
Questa non è un’infrastruttura pubblica come tante. Il suo é un Pil molto speciale, che fa un tutt’uno
con la reputazione e con la cultura di un Paese.
Non possiamo dire che il mondo ci guarda ma insistere a specchiarci nel nostro goldoniano rio. Se
così stanno le cose, l’unicum di Venezia non dovrebbe più permettersi altri go and stop, altri tar,
altri rinvii e ulteriori ni .
Il Mose è oramai un sì , o un no, di primavera. Basta ni.