2003 febbraio 9 Roma tomba dell’autonomia

2003 febbraio 9 – Roma tomba dell’autonomia
Una volta era la Dc. Ma adesso non si sa bene che cosa, soprattutto a Nordest, da Trieste a Verona, da
Trento a Treviso. Secondo il luogo comune, è Forza Italia la nuova Dc. Se si intende sostenere che
Silvio Berlusconi ha reinventato lo stesso spazio moderato democristiano, siamo d’accordo. Se si
allude invece alla stessa identità politica, non ci siamo: sarebbe come assimilare una velina a Carla
Fracci, un movimento carismatico a una scuola di partito. In questo senso FI e Dc non sono nate
parenti, e il fenomeno è visibile a tutti i livelli, anche il più paesano. Marano di Valpolicella, piccolo
comune veronese sui tremila abitanti, si fa notare per il buon vino e perché ha in municipio un avvocato
civilista che fa ininterrottamente il sindaco da 19 anni. Quando gli hanno chiesto la differenza tra
amministrare ieri e oggi, ha risposto che una volta contava in paese la “sezione della Dc”, adesso
soltanto le “persone” in ordine sparso, mentre la politica sta tutta in tv. Un quadretto da manuale, che
produce effetti anche grotteschi. La politica è altrove, fuori, quasi tutta in televisione, quindi allo stesso
tempo casalinga e irraggiungibile. Ma, ecco la vera anomalia, perfino l’amministrazione sta uscendo
dal territorio di riferimento. Non soltanto la politica in senso largo; ora anche la politica più locale. Mai
come oggi l’intero Nordest è dalla mattina alla sera in viaggio per Roma dal momento che in periferia
non deve muoversi foglia che “il tavolo romano” non voglia. Decide tutto Roma, sceglie Roma, manda
a dire Roma. Nemmeno ai tempi della triade dorotea Angeli (Trentino-Alto Adige), Biasutti (Friuli-
Venezia Giulia) e Bernini/Cremonese (Veneto), la Dc si sarebbe permessa un controllo altrettanto
militare a partire dalla sede romana di Piazza del Gesù. Semmai lo faceva con più discrezione e con le
correnti allenate a tenere i coltelli sotto il tavolo. Adesso no. E, incredibile ma vero, più si è “speciali”
in regione più il centrodestra si vede costretto a trasferire a Roma le decisioni che lo riguardano in loco.
Accade a Trento, provincia addirittura specialissima , che andrà a votare il prossimo inverno. La Lega
non vuole, An nemmeno, e dunque dirà Berlusconi in persona se candidare o meno l’ex presidente dc
Mario Malossini, ritornato brillantemente in pista a dieci anni dalle sue disavventure giudiziarie. Qui
non entro nel merito della faccenda, limitandomi al metodo. Anche le autonomie più forti e più
consolidate si arrendono, questo il fatto. Alla faccia del federalismo a petto in fuori, il “tavolo romano”
fa o disfa come gli pare, quasi commissariando le amministrazioni. Il bello è che tanta libidine di essere
comandati a bacchetta parte dal Nordest più che da Roma! Da Trento a Trieste, provvedono le divisioni
a spingere il centrodestra a spostare il potere decisionale a Roma. Le parole d’ordine sono
sistematicamente “decida Berlusconi” o “decida Bossi” ma non di rado “decidano Berlusconi e Bossi”,
come nel caso delle vicine regionali del Friuli-Venezia Giulia. La Regione celebra i suoi 40 anni di
“specialità” istituzionale proprio nel momento in cui dimostra di cedere il pallino amministrativo al
tavolo romano. Se puntare sul presidente uscente Renzo Tondo, di Forza Italia, o sulla leghista
Alessandra Guerra, sarà alla fine una scelta davvero speciale ma all’incontrario: delegata dalla periferia
al centro, in retromarcia rispetto al regionalismo per non dire federalismo. Ciò dipende anche dalla
malattia infantile del bipolarismo. Non due schieramenti politici con capo e coda, ma assemblaggi di
partiti con un unico denominatore in comune: Berlusconi. Per adesione, vedi il centrodestra, o per
rifiuto, vedi il centrosinistra, ma sempre e solo Berlusconi. I programmi non esistono. In questa fase,
esiste soltanto il sì o il no a Berlusconi. La politica si è contratta tutta in due monosillabi da referendum
perpetuo: sì o no al Fattore B. Quando si vota politicamente, la cosa almeno è chiara, rozza ma chiara,
o di qua o di là, anzi mi correggo, o con lui o contro di lui. Pur dissociate nei programmi, le coalizioni
del sì e del no tengono perché personalizzano all’ennesima potenza, riducendo il messaggio elettorale
ai minimi termini. Lui o Occhetto, lui o Prodi, lui o Rutelli, lui e si vedrà. Ma se togli di mezzo la
chiamata alle armi/urne generale e carismatica, non c’è più bipolarismo che tenga. Le coalizioni non

esistono più, dimostrano di essere miti elettorali e basta. A cominciare dal centrodestra. Il Veneto non
fa eccezione. Piuttosto dimostra quanto sia politicamente atipico governare assieme il partito personale
(Forza Italia), il partito territoriale (Lega Nord), il partito d’ordine (Alleanza Nazionale), il partito post-
democristiano. Non a caso, dal Passante allo Statuto, Galan ha incontrato a volte più resistenza nella
coalizione che nell’opposizione. Come arcinoto, alle elezioni comunali di Verona si frantumò la stessa
Forza Italia, che alle provinciali di Treviso mancò addirittura il ballottaggio. Quanto al sindaco
Gentilini, alla scadenza del secondo mandato, oggi si appella a Bossi perché la Lega si presenti da sola
alle prossime comunali considerando nient’altro che “zombi” e “pipistrelli” certi alleati della Casa delle
Libertà. Il finto bipolarismo genera a Nordest infinite varianti e la caduta del desiderio di autonomia.
Per questo si va tanto a Roma, ma non dal Papa. Sua Santità concede udienza il mercoledì. Berlusconi e
Bossi ogni santo giorno.
9 febbraio 2003