2003 gennaio 12 Confindustria

2003 Gennaio 12 – Confindustria

Anche se è passata sotto silenzio o quasi, Antonio D’Amato ne ha pensata una di grossa.
Imprenditore napoletano che produce imballaggi per alimenti, 46 anni a giugno e da circa tre anni
presidente dei confindustriali, ora D’Amato ha stabilito che solo le “riforme economiche” sono una
priorità; le “riforme istituzionali”dopo, possono aspettare.
Non è che l’abbia detto all’ora dell’aperitivo tra i calorosi amici dello Yacht Club di Napoli; l’ha
scritto di suo pugno al “Sole 24 Ore”, quotidiano di proprietà della Confederazione. E’ dunque la
nuova linea ufficiale della lobby industriale, la quale sbatte la riforma dello Stato in lista d’attesa e
manda a dire al governo di badare soltanto delle imprese senza perdere tempo in Parlamento con
federalismo e/o semi-presidenzialismo alla Berlusconi, premier all’inglese e/o cancelliere alla
tedesca, e altre quisquilie del genere.
In definitiva gli industriali dichiarano di aver ben altro cui pensare, arrivederci e grazie. La
retromarcia riformista c’è e si vede soprattutto rispetto all’atto di nascita della presidenza D’Amato.
Nella primavera del 2000, una cena romana a base di pesce siglava il patto vincente che portò
D’Amato a guidare Confindustria e il trevigiano Nicola Tognana alla vice-presidenza vicaria,
mettendo insieme una inedita macedonia del capitalismo italiano. Nordest, Sud, Giovani Industriali
e imprenditori di rango globale come Luciano Benetton.
Allora, il messaggio era questo: ha vinto il nuovo d’impresa mentre hanno perso i tradizionali
“poteri forti”; il salotto buono della finanza ha ceduto agli spiriti emergenti dell’economia diffusa.
Forse più di quanto egli stesso si proponesse, appena eletto D’Amato faceva proprio il moto
riformista del Nordest, da anni sintetizzato dalle 13 associazioni provinciali con una sola parola
d’ordine :”modernizzazione”, sia delle Istituzioni politiche che delle regole economiche.
Non c’era un “prima” e un “dopo” delle riforme. C’era un ferreo doppio binario: economia da
spalancare al mercato; Stato da sburocratizzare chirurgicamente.
L’aria era questa, dalla metà degli anni Novanta in poi. Gli imprenditori del Nordest le avevano
tentate tutte, ma proprio tutte, anche per potenziare al massimo le autonomie. Economia
flessibile, Stato leggero.
Una volta i confindustriali di Treviso e di Udine, di Padova come di Venezia, avevano affittato
perfino dei voli charter per andare a protestare nella capitale. Quel giorno il multinazionale friulano
Andrea Pittini aveva minacciato la delocalizzazione generalizzata in Croazia e Slovenia:” La loro
burocrazia – dichiarò a Roma con lo stesso piglio di quando va a caccia d’anatre sul Delta del Po –
è dieci volte migliore della nostra!”
Produttore di tegole e di pavimentazioni , Tognana era stato il centravanti di sfondamento di questo
forcing . Aveva fatto tappezzare di manifesti le piazze ministeriali di Roma ; proposto referendum
popolari; acquistato spazi di protesta a pagamento sui quotidiani e , assieme a Ivano Beggio leader
dell’Aprilia, consegnato le simboliche chiavi di tante aziende tartassate. Ci voleva l’hangar
dell’aeroporto di Treviso per contenere la sua annuale assemblea provinciale da 2.500
confindustriali al colpo.
Non aveva peli federalisti sulla lingua l’attuale cinquantenne vice-presidente di Confindustria.
Chiedeva “Federalismo nell’unità “ per l’Italia e, guardando alle autonomie di Trieste e di Trento-
Bolzano, uno Statuto speciale anche per il Veneto. Considerava “sacrosante” le Leggi Bassanini sul
decentramento ma un decimo di secondo dopo aggiungeva dal palco che erano “poco efficaci se
disgiunte da una riforma realmente federale dello Stato”.
E i Giovani Industriali italiani, con in testa Emma Marcegaglia, elaboravano proprio dal Nordest il
loro progetto di “Riforma in senso federalista dello Stato e delle Istituzioni”. La tesi portante era
che il federalismo dovesse essere la “giusta finalizzazione del Manifesto per l’impresa”. Parole
sante, oggi più che mai.
E’ vero che da allora sono cambiate un sacco di cose e molto in fretta, opinione pubblica,
presidenti, Nordest, governo, Europa, mondo, vecchia e nuova economia, 11 settembre e tutto il
resto.

Non siamo più allo stesso punto né gli accenti industriali sono gli stessi, ma una cosa è nonostante
tutto stabile, fissa come una stella, immobile: la mancanza di moderne infrastrutture anche
istituzionali. Non basterebbero nemmeno scorrevoli Passanti, Ponti, Pedemontane, Corridoi 5 e
Trafori del Brennero se la macchina di Stato & di governo rimanesse così come sta, ingolfata e
lenta al centro del sistema politico.
Elaborando i dati 2002 del World Economic Forum, la Confartigianato di Mestre ha appena
verificato
il piazzamento del sistema-Italia nel mondo. Per efficienza della pubblica
amministrazione il nostro Paese è oggi 40°, ultimo fra gli industrializzati. E al 37° posto per qualità
delle istituzioni pubbliche.
Contenti loro, contenti tutti. Pertanto questi rassegnati confindustriali in versione 2003 proprio non
li capisco, quasi temessero di …affaticare il Parlamento con un super lavoro riformatore! Non si
capisce infatti perché, per accelerare ad esempio la riforma delle pensioni come ha fatto Chirac in
Francia, debbano spingere di fatto ad accantonare quella istituzionale che invece é altrettanto
indispensabile.
Sono tutte priorità, voglio dire, da aggredire in parallelo.Per sommo paradosso, sarebbe come se il
presidente americano Bush, poiché alle prese con la guerra, avesse rimandato la sua manovrina
fiscale da 764 miliardi di dollari in dieci anni, pari a un milione e mezzo di miliardi di vecchie lire.
Non so se mi spiego.
D’Amato dovrebbe oltretutto avvertire un allarmante brivido politico. Nel declassare dalle priorità
le riforme istituzionali, ha trovato tutt’altro che a caso un pronto e convinto alleato: Cofferati ( ex
Cgil), per la verità assieme a Diliberto ( Comunisti italiani), nessuno dei due segnalatosi in carriera
per slanci riformisti.
A detta del presidente di Confindustria, Cofferati è sempre stato anzi l’incarnazione stessa del
“conservatore” più deleterio. Ad Antonio D’Amato non fischiano le orecchie?