2003 ottobre 9 40 anni dal Vajont

9 ottobre 2003 – 40 ANNI DALLA TRAGEDIA DEL VAJONT

I quattro milioni di persone che visitano ogni anno il cimitero di Arlington, a Washington, possono
vedere un monumento molto speciale, impossibile da dimenticare: un enorme blocco di granito nero
proveniente da Bangalore in India e tagliato nello Stato americano del Vermont sul quale sono incisi a
caratteri grigi, l’uno in fila all’altro, i nomi e i cognomi di 58 mila 325 militari, nessun civile. Sono i
nomi dei soldati che gli Stati Uniti hanno perso durante la guerra del Vietnam, alla quale parteciparono
a turno due milioni e 700 mila americani.
Per ricordare i caduti senza chiedere neanche un centesimo al governo federale, una Fondazione privata
raccolse nove milioni di dollari e selezionò molti progetti prima di approvare il Vietnam Veterans
Memorial Wall. ”Wall”, il muro, il muro nero alla memoria di 58.325 combattenti.
Il Vajont vale come un Memorial e, 40 anni dopo la grande onda assassina, sta a significare tante cose.
E’ il nome di un torrente. E’ una data, 9 ottobre del 1963, lo stesso anno in cui il cardinale Montini
diventa papa Paolo VI e nasce con il Friuli –Venezia Giulia la quinta regione a statuto speciale d’Italia.
E’ una diga che ai suoi tempi era la più alta del mondo. E’ un numero innocente, 2000 vittime
soprattutto di Longarone, di Pirago, Villanova, Rivalta, Faè, di Castellavazzo, di Erto e Casso. E’ una
colpa dell’uomo non una malvagità della natura. E’ una meditazione a cielo aperto. E’ uno scomodo
anniversario.
La diga sta ancora là, intatta nonostante la frana di 250/260 milioni di metri cubi di materiale roccioso
piombata nel suo bacino idroelettrico e nonostante la spallata di 50 milioni di metri cubi d’acqua
provocata dalla frana. Chiunque si trovi a viaggiare sulla strada statale 51, di Alemagna, la può vedere
benissimo, così com’era, lassù, stretta per sempre in una gola tra le montagne che separano il Veneto
dal Friuli.
Sembra ancora la diga del Vajont, ma non lo é più. Da allora é soltanto una gigantesca lapide in
calcestruzzo. Il muro, il nostro “Memorial Wall” civile, che ricorda le ore 22 e 39 minuti di una sera
qualunque di un qualunque mercoledì.
Più che distruggere i paesi, scrisse il giornalista Fiorello Zangrando, l’onda li “triturò”. All’alba del
giorno dopo i fotografi non dovevano curare l’inquadratura; bastava che aprissero l’obbiettivo e
facessero clic, in bianco e nero, i colori del lutto.
Gianni Mario, di San Candido, lavorava a Milano per l’agenzia fotografica di Tullio Farabola, la
migliore su piazza. Fissò il volto di una donna, come uscita da una tragedia greca di Eschilo, che
diventò la copertina del settimanale “Gente”. Un’altra, più anziana, tutta vestita di nero e inginocchiata
sul terriccio a pregare, occupò la prima pagina di “Epoca”. Lui, come Bepi Zanfron di Belluno,
impressionavano la pellicola soltanto di dolore.
I superstiti condensano ancor oggi le parole nel rievocare sentimenti indicibili. Tempo fa Arnaldo
Olivier, uno dei tanti Olivier di Codissago nel comune di Castellavazzo, mi raccontò:” Avevo 17 anni,
mi ritrovai in acqua abbracciato a mia mamma. Nessuno di noi pensò alla diga: era come se tutto
venisse da sopra di noi, io pensai alla fine del mondo.”
Prese fiato nel parlarmi, e si fece guardingo, come se non fossero passati decenni: ”Il rumore, –
aggiunse – ho quel terribile rumore ancora addosso. Da allora, ogni rumore mi inquieta, devo sapere
subito da che cosa é causato.”
Un altro superstite, Norio Delvesco, mi confessò che le rievocazioni lo lasciavano più che altro
perplesso. Nello stringergli la mano incrociando il suo sguardo, mi resi conto che il trauma continua a
franare nel cuore come la roccia sfatta del monte Toc.
Mi é già capitato di affermarlo in pubblico a Longarone. Sulla lapide-diga del Vajont andrebbero oggi
elencati i nomi e i cognomi delle 2000 vittime di ieri. Tutte, una ad una, con lettere di bronzo ben
piantate. E un faro coraggioso di luce le dovrebbe accompagnare nella notte, ben visibile anche da

lontano come un lume collettivo dei morti di un giorno e dei nati di domani, una generazione dopo
l’altra.
A cominciare dal Nordest, abbiamo tutti bisogno di questa buona memoria comunitaria. Non di
anniversari obbligati, ma di pensieri capaci di fare scuola a tempo indeterminato tanto ai ragazzini
quanto ai ceti dirigenti del nostro Paese. Non di monumenti per decreto, ma di valori per scelta.
La diga e dintorni andrebbero ripensati da cima a fondo, con sentieri, percorsi guidati, angoli attrezzati,
mappe didascaliche. Vi si potrebbe forse attivare anche una sala di proiezione permanente per i
visitatori più attenti, in modo che attraverso il Vajont si possa ragionare dal vivo – quasi in diretta –
sullo sviluppo economico sostenibile dal nostro tempo e con le nostre forze.
Il Vajont fu una tragedia locale ma già a pedagogia globale, da sito Internet permanente. Servirebbe
una biblioteca che continui a testimoniare la cecità, il conformismo e la disponibilità della stragrande
parte dell’informazione italiana di allora a fronte dei poteri fortissimi della Sade, Società
concessionaria dell’elettricità del Veneto tra gli anni quaranta e sessanta. Un capitolo questo non
abbastanza indagato da noi stessi giornalisti.
Inoltre, nei panni di presidi e insegnanti almeno dei Comuni di montagna, adotterei come libro di testo
di educazione civile e/o di religione laica “Il racconto del Vajont” di Marco Paolini e Gabriele Vacis.
Farei ogni anno rileggere a voce alta pagine di “Vajont 1963, la costruzione di una catastrofe”, della
giornalista bellunese Tina Merlin che aveva temuto tutto in largo anticipo e che, con le sue
corrispondenze sul quotidiano comunista “L’Unità”, aveva inutilmente messo in guardia chi di dovere.
Registrerei stabilmente anche la voce boscaiola di Mauro Corona, biografo a Erto di una civiltà
scomparsa per rapina del territorio.
Monte Toc. Toc, quasi il rintocco dell’ultima campana; l’annuncio di un’energia che i fisici hanno
calcolato pari al doppio della bomba atomica lanciata su Hiroshima.
Durò due, tre, forse quattro minuti al massimo il massacro del Vajont. Dopo 40 anni , quei due minuti
da giudizio universale non passano mai. Esattamente come i rimorsi.
Conservo un ricordo netto e pesante quanto i sassi del Piave. Appena un mese prima, a Milano, avevo
cominciato il mestiere di giornalista, e il direttore mi lasciava tornare una volta ogni quindici giorni
nella mia Castelfranco Veneto per non farmi morire di nostalgia.
Al ritorno, la sera del 9 ottobre, ritrovai i soliti amici al solito bar del biliardo, il Caffè di Mezzo, dove
si poteva fare notte fonda anche dopo la chiusura. Quando la radio raccontò che dalle parti di
Longarone era successa la fine del mondo, decidemmo di correre a vedere. Con me salì Renzo B., altro
nottambulo della nostra combriccola.
A Ponte nelle Alpi, carabinieri e poliziotti ci fecero mollare la macchina. Prendemmo al volo due
biciclette parcheggiate in una falegnameria e pedalammo gli ultimi dieci chilometri spinti dalla
curiosità, dal mistero, dalla paura.
Di colpo capimmo. Ai lati della strada animali annegati; vacche gonfie di acqua penzolavano perfino
dalle travi dei secondi piani di case sventrate, tagliate a metà dall’invisibile mannaia d’acqua calata dal
cielo che attorcigliò e segò i binari della ferrovia quasi fossero tagliatelle fatte in casa.
Da Fortogna in su, i soldati caricavano sui camion militari cadaveri a mucchi.Il vento e il diluvio li
avevano denudati tutti, di tutto. Stavano dappertutto; venivano tirati giù anche da esili alberi rimasti in
piedi chissà come ai lati del greto del Piave.
Longarone era una pianura di sassi, sepolta dai ciottoli del fiume sacro alla Patria. Sotto il sole, potevo
cogliere le stesse tonalità del grigio che avrei visto in un celebre quadro al maggior museo di New
York: “Guernica”, dedicato da Pablo Picasso alla città basca di Spagna rasa al suolo dall’aviazione
nazista.
Era tutto morto sulla spianata di Longarone. Si camminava ignari sopra case inghiottite dalla ghiaia.
Qua e là affioravano brandelli di vita sommersa, una pipa, una coperta a fiorellini, la spina della

televisione che aveva appena trasmesso la partita di Coppa dei Campioni, uno scialle di lana fradicio,
due pagine lacerate di sillabario ancora tra le dita di una bambina senza vita sul suo lettino.
“Che Dio ce la mandi buona”, aveva scritto proprio quel giorno, soltanto qualche ora prima della
catastrofe, il direttore generale della Sade. Da tempo più di un geologo aveva colto i segni premonitori
di cedimento del monte Toc, ma la macchina della diga, dell’imprevidenza e del profitto sregolato
rifiutò di fermarsi. A volte gli uomini chiudono gli occhi davanti a ciò che li spaventa.
Non erano sbagliati i calcoli sulla tenuta della diga. Era sbagliata la cultura di riferimento, che aveva
dimenticato l’habitat, le dinamiche della natura, l’antica sapienza montanara. Anche la cautela della
scienza.
Mai come oggi l’Italia ha fame di energia, di centrali elettriche, di nuove fonti. Il grande buio nazionale
del recente “Black out” parla da solo, in famiglia, in parlamento, in azienda. Fanno bene gli
imprenditori di Belluno a darsi da fare per aumentare i chilowatt a loro disposizione, ma devono
rendersi tassativamente conto che c’é acqua e acqua, torrente e torrente, risorsa e risorsa.
No e poi no. A 40 anni dalla sua tragedia di massa, Vajont non può diventare adesso un corso d’acqua
qualunque, un luogo economico, una voce come tante di un piano energetico regionale.
Lasciamo in pace il nome Vajont, almeno fino a quando la sua gente vorrà che gli anniversari servano a
scongiurare altri errori, altri crimini. Il Vajont é solo del Vajont e del suo popolo del memoriale.
Soltanto loro sanno.

Giorgio Lago